di BRUNO MANFELLOTTO                            

Appassionati e rigorosi come sempre, Vittorio Roidi e Fabio Martini hanno qui sollevato temi che ci toccano tutti e di cui sarebbe opportuno preoccuparsi, e discutere, magari invadendo le pagine di Professione Reporter: interrogandosi su credibilità dell’informazione, deontologia ed etica professionale; sui rapporti con la proprietà e con la pubblicità; sui codici di comportamento e le sanzioni per chi li viola. Allora, cominciamo.

Maledetta sciatteria

In verità, su uno di questi argomenti – il ruolo e i compiti degli organi di controllo, Ordine o comitati ad hoc – non ho le idee chiare. Mi chiedo per esempio come possano, l’uno o gli altri, sanzionare giorno per giorno un titolo farlocco, una didascalia sbagliata, l’esasperazione sensazionalistica di una notizia, o l’inqualificabile sciatteria che invade testi, interviste, commenti sulla carta e sulla rete. Càpita allora, notavano Roidi e Martini, che i “censori” si muovano solo per l’incidente eclatante, per esempio rimediare a un’accusa infondata ai danni di qualcuno, o denunciare l’uso ignobile di una fotografia, o lanciare l’allarme per il dilagare della pubblicità fatta passare per notizia (talvolta nel silenzio delle redazioni).

disciplina e professione

Interventi sacrosanti, intendiamoci, ma così siamo ancora nel campo della censura classica, insomma dell’etica e della morale, piuttosto che dell’esercizio professionale che pure avrebbe bisogno della stessa, drastica cura. Perché se si vuole salvaguardare il primo fondamento del mestiere, la credibilità che Martini vede a rischio, allora bisognerebbe occuparsi e di etica e di pratica insieme dal momento che l’incuria nella scrittura, nella titolazione o nella verifica delle fonti finisce per lasciare campo libero anche alle violazioni deontologiche, in qualche modo le alimenta, e perfino le assolve, paradossalmente le giustifica. Quindi, non saprei cosa dire sul punto, se non che comprendo e condivido la provocazione di Roidi che, persona seria assai, denuncia che in queste condizioni far lavorare un consiglio di disciplina è difficile, anzi impossibile. 

autogoverno in redazione

E allora? Intanto sarebbe bello se, in un sussulto d’orgoglio, fossero gli stessi giornalisti a rivendicare un sano regime di autogoverno, e magari si impegnassero perché ciascuna testata si dotasse di un “ufficio fact checking” organizzato, credibile e responsabile. Qualcuno già ce l’ha, davvero pochi, perché le buone intenzioni si infrangono davanti a barriere insuperabili: gli editori che si reputano rispettosi e perbene lamentano aumenti dei costi – li temono come la peste – ma sotto sotto anch’essi intravedono ostacoli alla gestione della pubblicità, che è già poca; i più spregiudicati sono invece in allarme perché vogliono solo salvaguardare la gioiosa macchina della propaganda, che a costoro interessa molto più delle notizie…

lobby e correnti

Aiutano anche altre considerazioni. Il calo drastico delle copie – parallelo non solo al boom del web ma, si noti bene, anche a quello dell’astensione dalle urne – e il conseguente crollo della pubblicità hanno scoraggiato gli editori più o meno puri interessati alla carta come impresa. Questi, tranne qualche rara eccezione, hanno lasciato il campo a personaggi che fanno tutt’uno con una certa politica (partiti, correnti, lobby, giri d’affari) e conducono giornali non per fare informazione, ma per offrire un servizio al potere costituito trasformando ogni sospiro dei loro referenti nella notizia del giorno. Dall’altra parte, chi piazza pubblicità non solo dispone oggi, e a prezzi più bassi, della ben più vasta e profilata platea del web, ma sa anche di possedere un enorme potere contrattuale nei confronti degli altri media, più disposti di prima a venire incontro all’inserzionista.

scrivanie sparite

Inoltre, la ripetuta minaccia di prepensionamenti e tagli, giustificati dai bilanci in rosso, hanno ulteriormente indebolito il ruolo delle redazioni. Anche nelle piccole cose. Dalla giornata del giornalista sono scomparsi la mazzetta dei quotidiani, le affollate riunioni di lavoro, perfino la scrivania e il computer fisso: rituali, strumenti e luoghi che sono sempre stati anche occasione di scambio di idee, di confronto, di riflessione. Il mestiere, poi, si esercita ormai quasi solo per telefono, a cominciare dalla pioggia di interviste che si fanno senza guardare negli occhi l’interlocutore, e spesso solo nella speranza che questi dica una castroneria meritevole di un titolo choc sul sito o nelle poche battute di un social: la madre del sensazionalismo è anche qui.

destra e sinistra

E poi c’è l’ubriacatura da talk show, oggi in buona parte superata, ma che resiste su alcune reti tv dove, per la legge della par condicio trasformata per estensione in insulsa pratica generalizzata, anche i giornalisti sono etichettati di “destra” o di “sinistra”, di governo o di opposizione, come i politici, accanto ai quali sono fatti sedere in un’ambigua confusione di ruoli. Ci si aspetta che ciascuno smentisca l’altro, augurandosi che con la voce degli ospiti si alzi pure l’audience. Chi sta davanti allo schermo guarda e sorride, si diverte pure, ma pensate che non capisca il gioco e non ne possa dedurre una scarsa affidabilità degli interlocutori?

Cuccia insegnava

E però, prima di sprofondare nel pessimismo, si tenga conto che mai come oggi l’informazione è stata così massiccia, pervasiva, e pure potente se si pensa alle manovre che quella politica di cui sopra ingaggia costantemente per controllare, imbavagliare, impedire. O comprare. Bisognerebbe, dunque, trarne motivo di incoraggiamento, e non solo di sfiducia da “cupio dissolvi”, a patto però di impegnarsi per riconquistare spazi e diritti guardando al bene comune di un’informazione corretta. È un lavoro che spetta soprattutto a noi, a ciascuno di noi: mi sembra l’unica strada possibile per recuperare credibilità.

Per continuare a coltivare un po’ di speranza, e anche per spiegarmi, mi ostino ogni volta a parafrasare il vecchio motto di Enrico Cuccia: lui sosteneva che nelle alleanze tra grandi imprese e nelle scalate di Borsa, le azioni non si contano e basta, si pesano. Ecco, potrebbe valere anche per le copie: che pesino di più, siano più autorevoli e sorprendenti, ricche di un’informazione accurata e sempre aggressiva, non nei toni e nelle parole, ma nei contenuti. Cercasi giornalisti (ed editori…) disposti ad accettare la sfida.

(nella foto, Enrico  Cuccia)

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