di GIUSEPPE F. MENNELLA
Due giornalisti di lunga esperienza e provato valore Vittorio Roidi e Fabio Martini – hanno aperto su queste pagine un confronto sulla professione, sulle sue regole, sulla tenuta deontologica dei singoli iscritti e della categoria nel suo complesso. Questa nota potrebbe chiudersi qui, dichiarando il pieno accordo con le argomentazioni di Vittorio e Fabio. Ma forse è possibile aggiungere qualche altro elemento di analisi intorno a una professione che sta vivendo una svolta epocale paragonabile a quella della prima rivoluzione tecnologica della stampa, quella di Gutenberg (fece fuori un mestiere millenario, quello degli amanuensi, tanto per capirci).
un eone fa
Non ce la passiamo bene, tra nuove tecnologie, social, intelligenza artificiale, precariato dilagante, disconoscimento sociale, editoria sempre più impura, crisi aziendali e prepensionamenti. L’informazione intanto resta governata da codici e leggi di un eone fa: il Codice penale è del 1930, la legge sulla stampa del 1948, la legge istitutiva dell’ordine del 1963, la sentenza decalogo sui limiti del diritto di cronaca e di critica del 1984 (a proposito di deontologia). L’articolo 21 della Carta costituzionale non contiene la parola informazione, peraltro mai citata nell’intero testo.
Non sono vuoti normativi, sono abissi soltanto in parte colmati dalle sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione. Perfino le definizioni di che cosa è il giornalismo e chi è il giornalista le dobbiamo ai giudici. Così come agli stessi dobbiamo l’adeguamento ai nuovi giornalismi delle norme scritte per un altro giornalismo, quello che sta morendo sotto i nostri occhi.
legislatore assente
Non deve stupire il fatto che dalle parti del decisore politico non ci si curi troppo di mettere mano a questa situazione. Va bene così: un potere di (eventuale) controllo in meno. Così come va benissimo che sia ancora previsto il carcere per i giornalisti. Qui siamo a un capolavoro che va raccontato. Da sei legislature e venticinque anni in Parlamento si rappresenta sempre la stessa sceneggiata, con lo stesso copione e, in parte, perfino gli stessi interpreti: presentazione di disegni di legge che aboliscono il carcere in cambio di multe salatissime (per la serie, “stavamo meglio quando stavamo peggio”), una inadeguata spolverata di ammodernamento delle norme, l’obbligo di non replicare alle rettifiche. Segue un po’ di alternante e distratta discussione in attesa della fine della legislatura. E si ricomincia. Dobbiamo alla Corte costituzionale se la norma più pesante e odiosa (fino a sei anni di reclusione per diffamazione più la multa fino a 50mila euro – articolo 13 della legge sulla stampa) è stata dichiarata incostituzionale nel 2021. Il legislatore ha ignorato del tutto ciò che era scritto nella motivazione della sentenza a proposito del rapporto tra giustizia e informazione.
il sogno degli editori
Non se ne curano più di tanto neppure gli editori che forse sognano un giornalismo senza giornalisti.
Le questioni non finiscono qui. Roidi e Martini si occupano con perizia e fondate argomentazioni di deontologia. Il primo ha sollevato/centrato il problema del ruolo degli Ordini nazionale e regionali in tema di deontologia, che appare ormai scaricata sulle spalle dei Consigli di disciplina territoriale, anche se questi sono soltanto organi giudicanti.
sette punti
Ma da dove veniamo, che storia abbiamo alle spalle? In tema di deontologia le cose stanno più o meno così:
- Il giornalismo italiano ha sempre interpretato e praticato il diritto all’informazione come diritto di chi lo esercita professionalmente e non come diritto dei cittadini a essere informati. Questo è il senso del conflitto tra le due interpretazioni della libertà di espressione e di informazione: l’individualista contro la funzionalista
- Per decenni – chiuso il periodo della censura e della repressione fascista – ha prevalso la visione individualistica, come è dimostrato da un’attenta lettura dell’articolo 2 della legge che ha istituito l’Ordine (“È diritto insopprimibile dei giornalisti…”)
- La conseguenza è stata la resistenza della categoria a dotarsi di un corredo deontologico, cioè regole di correttezza professionale, poste a garanzia del destinatario del diritto, cioè il cittadino. Tra l’istituzione dell’Ordine e la prima Carta deontologica trascorreranno ben 25 anni. Tra l’articolo 21 della Costituzione (primo e secondo comma) e la prima Carta deontologica trascorreranno ben 40 anni
- Una caratteristica fondamentale della deontologia è di essere autonoma, cioè, generata dalla specifica categoria professionale. Non è eteronoma, non è imposta dall’esterno della categoria, per esempio dal legislatore
- Formalmente questo è stato vero nel nostro paese. Ma in realtà le troppo numerose Carte deontologiche dei giornalisti sono state adottate tutte sotto l’impulso e l’urgenza di eventi esterni, di natura sociale o legislativa
- La svolta è rappresentata dalla “sentenza decalogo”, della Cassazione civile, n. 5259 del 18 ottobre 1984. I principi giuridici contribuiranno ad aprire una riflessione sulla necessità per la categoria di dotarsi di un apparato deontologico
- L’adozione di protocolli, codici, carte di natura deontologica inizierà però soltanto nel 1988.
codici e carte
Dal 1988 (protocollo con i pubblicitari per evitare la commistione pubblicità/informazione. Problema mai risolto, anzi) fino a ieri è stato un convulso susseguirsi di carte e codici, fino all’adozione nel 2016 del Testo Unico dei doveri del giornalista. A sua volta, appena sostituito dai 40 articoli del Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti. Lo scopo di questi cambiamenti è nobile: rendere più comprensibili, praticabili, applicabili i precetti deontologici. Il presidente dell’Ordine è il primo a essere consapevole che di per sé questa decisione, pur necessaria, non renderà deontologicamente migliori i singoli e la categoria nel suo complesso. Non c’è un’età dell’oro da rimpiangere, né nostalgia per la stagione che fu, ma – scrive bene Martini – la caduta etica dei nostri tempi deve destare allarme. Ed essa non è estranea alla condizione (anche) materiale di chi fa giornalismo. A un precario a cinque euro a pezzo quale senso dell’autonomia e dell’indipendenza del mestiere possiamo chiedere?
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