di FABIO MARTINI
Un giornalista può essere più o meno bravo, ma risultare credibile – e apparire tale – non è un’aspirazione à la carte: dovrebbe essere un imperativo categorico. Di più: un riflesso istintivo. E tuttavia, se siamo sinceri con noi stessi dobbiamo riconoscere che in questa stagione la credibilità è assediata. I giornalisti sono sempre più attratti da tante sirene. La fama purchessia. L’aspirazione (non dichiarata) a far parte dell’élite che conta, sia essa di maggioranza o di opposizione. L’esercizio di un’influenza e spesso in modo partigiano: un vizio sempreverde ma ora verdissimo. E ovviamente: il dilagante sensazionalismo.
Senza generalizzare troppo – i professionisti seri non mancano, a tutti i livelli e in tutti i media – oramai però sono tante le sirene che minano la reputazione complessiva dei giornalisti italiani, che non a caso nella percezione media dell’opinione pubblica hanno perso affidabilità.
standard etici
Alla credibilità dei giornalisti sovrintendono in tanti: anzitutto, e soprattutto, i diretti interessati, continuamente sfidati a rispettare i giusti standard etici e professionali. Influiscono, è ovvio, i direttori: da sempre chiamati a determinare il “microclima” nel quale si lavora. E sulla attendibilità di chi informa, pesa non poco il rispetto della deontologia elementare, sulla quale vigila l’Ordine dei giornalisti, attraverso gli organismi competenti. E qui veniamo al punto: di recente Professione Reporter ha pubblicato una significativa lettera all’Ordine del Lazio di Vittorio Roidi, nella quale – oltre ad annunciare l’indisponibilità a continuare a presiedere il Consiglio di Disciplina regionale – erano contenute alcune argomentate riflessioni sulla sostanziale assenza di un’efficace autodisciplina.
stanza per lavorare
Roidi vorrebbe una maggiore vigilanza da parte dell’Ordine per segnalare violazioni della deontologia. Maggiore equità nelle sanzioni per chi non ha effettuato la formazione prescritta per legge. Maggiore attenzione nel segnalare la violazione del divieto di fare pubblicità. Rivela che il Consiglio di disciplina del Lazio non ha neanche una stanza per lavorare: questione non solo simbolica. Vittorio Roidi, come è noto sa di quel che parla. Ha lavorato al Giornale Radio con Sergio Zavoli, è stato capocronista di un Messaggero esemplare (quello diretto da Vittorio Emiliani), è stato Presidente della Fnsi e segretario dell’Ordine nazionale e anche in questi incarichi è sempre stato ispirato da un proverbiale rigore etico e professionale
Questioni assai rilevanti quelle sollevate, riassumibili in una: l’Ordine interviene soltanto nei casi eclatanti, non sentendosi interpellato davanti a tante violazioni deontologiche apparentemente “minori”. Ma in questo modo viene a mancare la prima griglia, in assenza della quale tanti giornalisti si sentono poi “autorizzati” a scivolare spontaneamente verso comportamenti borderline.
quieto vivere
Di questo minimalismo dell’Ordine nazionale e di quelli regionali è logico chiedere risposte ai colleghi eletti proprio per esercitare la necessaria vigilanza. Eppure, setacciando bene, qua e là si potrebbero individuare inerzie consapevoli dei vertici, ma quasi sempre ispirate alla logica o del quieto vivere, o del “così fan tutti”.
E qui arriviamo ad un punto importante: già da diversi anni i giornalisti eletti nei principali organismi di categoria (Fnsi, Ordine, Inpgi, Casagit) si ritrovano con le spalle scoperte: dietro di loro una categoria che ha smarrito l’orgoglio di una missione professionale ed è formata da tanti giornalisti sempre più rinchiusi in una dimensione individuale.
Non è un modo per deresponsabilizzare i colleghi ai quali abbiamo dato, in tanti e per tanti anni, il nostro voto. In questi ultimi anni diversi di loro sono stati chiamati a scelte dirimenti. Sul destino dell’Inpgi: se mantenerla autonoma – tra l’altro continuando a far da “cassa” della Fnsi – oppure, se confluire nell’Inps. Ma anche sulla natura del rinnovo contrattuale: se puntare ad una riduzione dell’orario di lavoro o preferire un adeguamento degli stipendi.
delega ai vertici
Questioni che, a onor del vero, non sono state e non sono seguite con passione palpitante dalla maggioranza dei giornalisti, che oramai delegano di fatto ogni decisione ai vertici. Donne e uomini lasciati (quasi) soli al comando e non per loro scelta. Anche se per la verità, nella gestione quotidiana si segnalano, qua e là, metodi clientelari per mantenere il consenso, che non tarderemmo a rimproverare ai politici.
Ma l’angolo visuale che qui si vuole proporre è esattamente rovesciato; non puntare l’indice verso i “vertici” e i loro limiti, ma semmai verso l’agnosticismo di noi tutti, coerenti con uno spirito del tempo individualistico, che è penetrato nella “base”. Per dirla altrimenti: la maggiorana dei giornalisti è disinteressata al “decoro degli iscritti” all’Ordine (così detta la legge istitutiva), in altre parole al proprio decoro. Disinteressati alla costante violazione alla deontologia elementare, che tracima da articoli e titoli molto sopra le righe, da post e da giudizi oracolari, senza qualsiasi oggettività espressi in particolare nei talk show. In alcuni dei quali gli ospiti che raccontano palesi falsità possono farlo perché sanno che il conduttore non li richiamerà all’ordine, giornalisticamente parlando. Le opinioni radicali devono poter correre libere, le falsità sono un’altra cosa e non dovrebbero scorrazzare indisturbate.
Ma non è soltanto questione di talk. Le violazioni della deontologia elementare avvengono sempre più spesso. Ovunque, Ogni giorno. Ogni ora. La situazione è sfuggita di mano. Bisognerebbe pensarci.
(nella foto, Maurizio Costanzo, precursore dei talk show in tv. Qui nel 2021 con Giorgia Meloni al Maurizio Costanzo Show)