di MARIO TEDESCHINI LALLI

Forse basterebbe quest’aurea sintesi della BBC per indicare come un giornalista dovrebbe usare i media sociali: “Don’t do anything stupid. You are a BBC journalist, act like one”, liberamente traducibile in: “Non fare fesserie. Ricordati che sei un giornalista e comportati come tale”. In realtà, nel 2015 il BBC News Group ha pensato necessario inglobare queste icastiche istruzioni ai suoi redattori in un denso documento intitolato “Social Media guidance for staff”, che si aggiunge ai molti analoghi che le redazioni di ogni parte del mondo hanno elaborato in questi anni per riflettere e dare indicazioni ai propri giornalisti su questa materia.
E’ in Italia?
Con la isolata eccezione della Stampa, che ha elaborato e reso pubblico già nel 2013 un  Decalogo per l’uso dei social media, le redazioni italiane hanno brillato per la loro assenza. A smuovere un po’ le acque si sono recentemente aggiunte le testate del Master di Giornalismo di Torino, ora diretto da Anna Masera, che era all’epoca social media editor della Stampa (Social media policy per i giornalisti di “Futura”), e quelle dell’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino (Linee guida per l’uso dei media sociali per redattori del Ducato). Proprio in quanto estensore della bozza delle linee guida di Urbino, il 3 luglio 2019 sono stato invitato dall’Associazione stampa romana a illustrarne i contenuti e – specialmente – le logiche.

Non che in Italia siano mancate occasioni di discutere e di riflettere su questo tema: seminari, festival, corsi di aggiornamento su “giornalisti e social media” abbondano, sono stati scritti libri (per esempio l’eccellente “Social Media Journalism” di Barbara Sgarzi), ma non pare che tutto ciò si rifletta in una cultura comune e in organiche proposte di comportamenti e linee-guida. E non parlo necessariamente di “carte deontologiche” o regolamenti validi per tutti.
Di fronte a problemi di etica professionale non può bastare l’adesione al minimo comun denominatore delle norme di diritto positivo, anzi una norma uguale per tutti e fissa nel tempo, in questo campo, potrebbe essere persino dannosa. Ogni redazione, ogni giornalista indipendente dovrebbe però porsi delle domande e darsi delle risposte. Le risposte che diamo ai singoli problemi possono essere anche parzialmente diverse, la cosa importante è non eludere le domande, non limitarsi a fare e comportarsi “un po’ come viene”, sulla base del “senso comune”.
Le linee guida servono però a poco se, una volta definite, non sono rese pubbliche, in modo che i cittadini possano misurarci e giudicarci non in base a norme astratte, ma ai criteri e ai valori che noi e la nostra testata affermiamo pubblicamente di seguire. Diventano pubblico impegno con i cittadini liberamente sottoscritto, probabilmente assai più efficace di un obbligo imposto da qualche autorità superiore. Metteremmo infatti in gioco direttamente la nostra credibilità, che è forse l’ultima carta che è possibile giocare per la sopravvivenza del giornalismo professionale.
Queste convinzioni sono alla base delle Linee guida dello IFG di Urbino.
Il documento parte affermando il principio generale che “i media sociali sono parte della vita e delle relazioni umane, in quanto tali devono essere parte della vita e delle relazioni del giornalista. E’ dunque opportuno e necessario che il giornalista li utilizzi e lo faccia consapevole delle responsabilità che questo comporta”. Da questo discendono altri tre principi, che informano di sé tutte le linee guida:

● I media sociali non sono un mondo separato, diverso da quello delle relazioni fisiche.
○ Ciò che accade nell’ambiente digitale ha conseguenze dirette nell’ambiente fisico e viceversa. Le conseguenze di un’azione nell’ambiente digitale possono essere assai più rapide e più vaste di quelle nell’ambiente fisico.
○ Le responsabilità civili e professionali dell’ambiente fisico e dell’ambiente digitale sono le stesse. Nell’ambiente digitale possono essere maggiori, considerando la rapidità delle conseguenze delle nostre azioni.
● I profili privati dei giornalisti sui media sociali hanno rilevanza pubblica.
● Tutte le leggi e le norme che si applicano al cittadino giornalista (leggi, codici, carte deontologiche, ecc.), si applicano anche alle sue attività sui media sociali.

I giornalisti possono usare i media sociali sostanzialmente a quattro scopi: Espressione personale, Narrazione giornalistica, Interazione con il pubblico, Raccolta e verifica delle informazioni. Lo fanno sia mediante gli account pubblici delle testate per le quali lavorano, sia – in più larga parte – mediante i loro account e profili privati e a questi ultimi le linee guida dedicano particolare attenzione.
In ognuna di queste funzioni, anche in quella di “espressione personale”, il giornalista non può e non deve dimenticare di essere tale (v. la “regola” della BBC). Ovviamente il primo comma dell’articolo 21 della Costituzione italiana protegge la libertà di esprimersi di tutti i cittadini, giornalisti compresi, ma saremmo sciocchi se pensassimo che come ci comportiamo nel mondo digitale e ciò che in quei contesti affermiamo non abbiano conseguenze per il nostro lavoro. I media sociali sono uno spazio pubblico e succede esattamente come negli spazi pubblici fisici (un bar, una cena con molte persone, una riunione…). Con il problema ulteriore che nel mondo digitale eventuali errori o comportamenti dannosi praticamente non possono essere “cancellati”.
In questo come in altri campi: non tutto ciò che è “legale” è necessariamente anche “opportuno” o “giusto”, e il giornalista dovrebbe chiedersi ogni giorno, ogni momento se ciò che fa, scrive e dice è “opportuno” o “giusto”.
Rimando alla lettura, peraltro non lunga, del testo delle Linee guida i dettagli delle regole di comportamento per i redattori delle testate dell’IFG di Urbino, ma può essere utile metterne in evidenza alcuni elementi, che potrebbero essere contro-intuitivi rispetto al comune sentire delle redazioni italiane.
Opinioni. I giornalisti, come tutti i cittadini, hanno diritto di esprimersi liberamente, ma devono farlo in modo tale da non danneggiare il lavoro proprio e della propria redazione.
Le avvertenze “le opinioni espresse sono personali”, i “re-tweet o la condivisione non implicano adesione”, sono inutili. Occorre esprimersi in maniera consapevole e responsabile, tanto più se si rilanciano materiali pubblicati da altri.

Identità. I media sociali sono luoghi dove l’ambiguità del contesto è massima, spesso non ci si rende conto che ci si sta esprimendo in pubblico. Il cittadino deve sapere se ha a che vedere con un giornalista, il quale quindi è opportuno si identifichi come tale, anche e specialmente quando partecipa a “gruppi chiusi” (ad esempio su Facebook). La regola è la trasparenza; il lavoro “sotto copertura” non può essere la norma e nei casi eccezionali nei quali sia necessario, occorre discuterne con i responsabili della redazione.

Materiali di terzi/Diritti. La legge è chiarissima: i materiali pubblicati sui media sociali sono soggetti ai diritti di proprietà intellettuale, sia economici, sia – spesso ce ne dimentichiamo – morali dei rispettivi autori. Se si intende utilizzare foto e video trovati sui social, occorre chiedere il permesso e indicare con chiarezza l’autore.

Materiali di terzi/Rispetto. A parte la questione dei diritti, “l’uso di fotografie e materiali tratti da profili/account sui media sociali di protagonisti di fatti di cronaca, in particolare di vittime o di sospetti in eventi di cronaca nera, può avvenire solo in casi assolutamente eccezionali e previa autorizzazione del direttore o della persona da lui delegata. Nei rari casi nei quali tali utilizzazioni saranno autorizzate, il giornalista avrà cura di farlo con grande parsimonia e con il massimo rispetto delle persone coinvolte”.

Verifica. Sui media sociali il giornalista segue i criteri professionali che dovrebbero essergli propri anche quando usa altri canali: verifica i dati di fatto; verifica la fonte; si astiene dal rilanciare notizie non verificate e, nel caso straordinario che lo faccia, chiarisce che la notizia non è verificata.

Fonti/Citazione. Il Testo unico dei doveri del giornalista (articolo 9, punto 5) è chiarissimo: le fonti riservate dovrebbero essere l’eccezione, “in tutti gli altri casi” le fonti devono essere citate. I social media, come peraltro afferma esplicitamente anche il Testo, non fanno eccezione.

Fonti/Protezione. Il giornalista deve evitare che l’interazione con il pubblico e l’uso dei social media per raccogliere e verificare informazioni destinate a un servizio giornalistico, mettano a rischio fonti cui si intende garantire riservatezza.

Correzione. Vale per i media sociali ciò che dovrebbe valere altrove: quando scopre di essere incorso in errore, il giornalista si corregge, anche a prescindere dagli obblighi di legge (“diritto di rettifica” ecc.), nel mondo digitale è tanto più vero perché l’informazione permane nel tempo. C’è tuttavia la tentazione di correggere “in silenzio”, o addirittura di limitarsi a cancellare l’informazione errata. Le Linee guida chiedono che la correzione e l’ammissione dell’errore siano fatte apertamente e pubblicamente.

A queste e ad altre questioni che in definitiva attengono alla affidabilità e completezza della informazione, si oppone spesso la necessità di seguire con tempestività il flusso delle notizie, la “fretta”, arrivando a teorizzare che proprio a causa della “correggibilità” del testo digitale sia possibile, quasi doveroso pubblicare con la massima rapidità possibile, correggendo successivamente. Mi sembra una sciocchezza.

La tensione tra tempestività e correttezza della informazione è costitutiva di ogni tipo di giornalismo, come sanno da tempo tutti i giornalisti che lavorano – per esempio – nelle agenzie di stampa, nelle radio o nelle trasmissioni all-news. L’universo digitale cambia i termini del problema solo nel senso che i nostri eventuali errori possono avere conseguenze assai più rapide e assai più vaste di quelli commessi su altri canali.

Anzi, proprio in un ambiente dove le fonti si moltiplicano e le informazioni si inseguono con ritmo sempre più serrato, ci sarebbe bisogno di fonti che in caso di dubbio scelgano la correttezza rispetto alla rapidità. Sarebbe – come dire? – un vantaggio competitivo, forse l’unico che l’informazione professionale potrebbe ancora vantare.

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