Di STEFANO BRUSADELLI

Ora che con l’elezione di Trump i padroni del web pregustano un’altra stagione d’oro (il neo Presidente adora i social e detesta la stampa), e i giornali contano altre sconfitte (con il Washington Post e il Los Angeles Times costretti alla neutralità dalle scelte interessate dei loro editori, e il New York Times autore di un endorsement perdente per la Harris), è venuto il momento di porsi una domanda cruciale. Non è che il tramonto dei giornali e quello della democrazia liberale in favore di nuove forme di autoritarismo più o meno soft sono in realtà strettamente legate tra loro? E che il tipo di democrazia fin qui sperimentato dall’Occidente ha bisogno di nutrirsi di cellulosa, e ora rischia di morire, o quanto meno di ammalarsi gravemente, per colpa del web? L’importanza della diffusione dei giornali per lo sviluppo e il consolidamento della democrazia, già intuito negli anni Trenta dell’Ottocento da Alexis de Toqueville (che la definiva “il potere di un popolo informato“), è un dato difficilmente contestabile. E non è un caso se le tappe fondamentali di tale diffusione, come la messa in vendita ad un solo penny del Sun di New York nel 1833 e l’invenzione della rotativa ad opera di Richard March Hoe nel 1843, avvennero negli Stati Uniti, dove il nuovo sistema compiva i suoi progressi più clamorosi. 

qualità e basso prezzo

Non è azzardato sostenere che i giornali ad elevata tiratura hanno sempre fornito alla democrazia parlamentare i presupposti per il suo buon funzionamento. Grazie alla circolazione di informazioni di buona qualità e a basso prezzo il popolo elettore può controllare sia i propri rappresentanti che il governo, esprimendo un voto consapevole. L’attendibilità delle notizie offerte dai giornali è mediamente alta per il timore di subire costose azioni legali. La loro tracciabilità è assicurata dalla firma dell’autore e dall’orientamento della testata. Soprattutto, i giornali sono spazi polifonici nel quali – con adeguato respiro in termini di spazio – idee diverse possono confrontarsi con il metodo del dibattito, che richiede un’attenta considerazioni delle ragioni dell’avversario, una buona conoscenza dei problemi e delle soluzioni e abili argomentazioni. In sintesi, si può dire che il modo in cui i conflitti vengono trattati sui giornali è analogo a quello dei Parlamenti. E viceversa. 

partecipazione politica

E’ significativo, per guardare all’Italia, che il periodo di massima diffusione della stampa quotidiana (sei milioni di copie vendute ogni giorno all’inizio degli anni Ottanta del Novecento), coincida con quello delle percentuali più alte sia nella partecipazione elettorale che nell’iscrizione ai partiti politici. 

Oggi, invece, a comandare è la Rete. E tutto fa pensare che nei prossimi anni tale egemonia sia destinata a farsi ancora più forte. Solo che dopo un’iniziale illusione sulla natura “democratica“ del web (della quale nel nostro Paese sono stati corifei poi pentiti i seguaci del Movimento 5 Stelle), è ormai evidente che esso produca sostanze tossiche per la democrazia. 

L’elenco è lungo. Opacità sull’origine delle notizie, tanto da autorizzare spesso forti dubbi sulla loro autenticità e sullo scopo per il quale sono state generate. 

messaggi brevi

Estrema difficoltà nel perseguire legalmente i fabbricanti di falsi. Svilimento della democrazia delegata in nome della convinzione di poter sostituire il voto con post o tweet. Tendenza alla radicalità delle opinioni, più capaci di “bucare“ la Rete e suscitare clic. Rifiuto della complessità (i messaggi sul web debbono essere brevi perché la soglia di attenzione degli utenti è bassa), il che porta a proporre ricette subitanee, e pertanto irrealistiche. Progressiva solidificazione delle proprie convinzioni, indotta attraverso la profilazione degli utenti e bombardamenti con messaggi confermatori. Facilità nel trafugare dati personali da utilizzare a fini distorsivi delle dinamiche elettorali. Svilimento delle opinioni diverse dalle proprie. Conseguente allergia per l’ascolto, per il dibattito costruttivo (sostituito con l’ingiuria) e per il compromesso, che sono i fondamenti del processo democratico. Infine, concentrazione del controllo della Rete nelle mani di pochi oligopolisti (i giganti del Big Tech), capaci di controllare non solo l’offerta di contenuti, ma anche la domanda da parte degli utenti, profilati e condizionati. 

scontri mediatici

Si tratta di una visione troppo catastrofista? Temo di no, considerato come ormai i Parlamenti siano diventati quasi soltanto arene di scontri allestiti a scopo mediatico, e le leadership si siano adattate (se non prostrate) alle regole del web, scegliendo uno stile di comunicazione stringato e aggressivo, affidato in prevalenza ai social. 

Del resto l’uomo solo al comando, portatore di idee semplificate e radicali, che trasforma gli avversari politici in nemici da abbattere ed è sempre in lotta contro i vincolanti sistemi di controllo tipici delle democrazie liberali, incarna perfettamente la filosofia del web. 

Ne è una (drammatica) conferma la campagna elettorale Usa, segnata dall’assenza del minimo rispetto reciproco tra i due candidati, e dalla deformazione caricaturale delle rispettive identità e idee (con la Harris definita “comunista“ e Trump “fascista“ in un Paese che non ha conosciuto nessuno dei due regimi). E tutto questo nella nazione dove la democrazia liberale è diventata un modello per il mondo intero. 

venti per cento

Un mondo, peraltro, nel quale aumenta vertiginosamente il consumo di traffico on line ma è in controtendenza (dati della Freedom House) la salute dei regimi democratici, con una libertà globale decresciuta nel 2023 per il diciottesimo anno consecutivo e appena il 20 per cento della popolazione che vive in Paesi pienamente democratici. 

Staremo a vedere cosa ci riserva il futuro.
Ma intanto, facciamo il possibile per aiutare i giornali a sopravvivere, se ci sta a cuore la democrazia. 

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