di ALBERTO FERRIGOLO

Qual è l’aspetto più difficile della guerra in Ucraina per un fotoreporter?

“Sicuramente è la gestione della sicurezza. Le molte volte in cui con altri reporter siamo andati nella zona calda e attiva del conflitto, a Nord di Karkiv, nel quartiere di Saltivka, oppure nel Donbass, per non parlare di Nikolaiv, il problema è sempre stato quello di affrontare una guerra di artiglieria per portare a casa del materiale. Anche se poi visivamente mostra solo soldati che parlano tra loro, rifugiati nei bunker. In realtà, c’è sempre il rischio di venir colpiti improvvisamente, in quel caso dai russi. La più grande difficoltà è arrivare nei luoghi in sicurezza e riuscire a lavorare, nonostante non si abbia mai il conflitto vivo davanti, ma solo le sue immediate conseguenze: i colpi che arrivano. In questa guerra è così”.

Classe 1987, originario di Santa Croce sull’Arno, Alfredo Bosco è un fotografo free lance che in Donbass la prima volta è arrivato nel 2014 per documentare la guerra civile nell’Ucraina orientale. Col suo reportage “Aree di crisi” ha ottenuto il riconoscimento LensCulture Best Emerging Talents 2015. Ha viaggiato in gran parte del mondo, dal Messico ad Haiti. Dopo l’attacco della Russia è tornato in Ucraina. 

Impugni una macchina fotografica, che è diversa da una telecamera o un taccuino. Cosa cerchi di documentare e trasmettere della guerra?

“Dal 2018 sono cambiato molto come reporter. Se prima tentavo di ritrarre la nuda e cruda realtà, il conflitto vivo, le conseguenze immediate, il mio intento ora è più di trovare immagini che possano sospendere un po’ l’immediato nel visivo”.

In termini più concreti?

“Cerco di non drammatizzare mai, perché credo che un buon modo per veicolare il contenuto sia quello di offrire a chi guarda la possibilità di riflettere. Non cerco di concentrarmi sulla smorfia di dolore di un corpo esanime, ma di trovare un elemento di quel corpo che faccia capire, certamente la morte, ma dal momento che sottraggo il dramma, quindi l’espressione di dolore cercando un altro dettaglio, di far riflettere su cos’è la morte in guerra”.

Quanto è rischioso avvicinarsi ai luoghi di conflitto?

“È stato molto rischioso, non posso negarlo. Ho fatto il corrispondente televisivo, ho documentato la cronaca assieme ad altri colleghi, dove il problema era già solo arrivare in città come Severodonetsk o Lyman. La strada veniva ripetutamente colpita dall’artiglieria russa. Magari si riusciva ad accedere alla città, a lavorare in un tempo molto limitato, ma la situazione diventava poi difficilissima perché arrivavano i colpi dell’artiglieria russa. Non solo i mortai ma i missili Grad. Bisogna sempre riuscire a capire quanto in un posto ci si può stare e venir via prima che accada qualcos’altro”.

Sei arrivato per la prima volta nel Donbass nel 2014 e ci sei tornato ora. Con quali mezzi e con che tipo di preparazione? Ti sei addestrato?

“Certo, è una cosa che raccomando assolutamente a tutti. Non si nasce imparati. Come capita a tantissimi professionisti, che magari iniziano in aree di crisi, se ci si va per la prima volta ci si può affidare a qualcuno più esperto, che ne sa di più, come è capitato. Però poi negli anni ho seguito un corso su come operare in aree di crisi organizzato dall’associazione Roma 3000. Con l’esercito ci si prepara e s’impara la sicurezza minima ma necessaria per lavorare in certe situazioni. Bisogna sapersi mettere un giubbotto antiproiettile correttamente, sapere come si entra in macchina e che non ci si mettono le cinture di sicurezza perché si deve sempre esser pronti a uscire dall’auto, saper distinguere i colpi in arrivo da quelli in partenza. Sono cose necessarie per lavorare più sicuri”. 

Descrivi una tua giornata-tipo. Come organizzi il lavoro? Fai un piano, su che basi scegli dove e cosa fotografare?

“In quei contesti in realtà non si guarda tanto alla grande notizia delle testate, ma si dà più rilevanza alle notizie locali. Guardavamo molto più i canali Telegram che aggiornavano con notizie specifiche, magari sul ponte colpito a Severodonetsk. O era più importante quel che succedeva a 30 km di distanza. Ci si confronta e ci si pone un obiettivo: domani si va a Lyman, è importante, i russi stanno avanzando e là ci sono aspetti più interessanti e visivamente forti per poter raccontare quel che sta accadendo. Da una parte c’è pianificazione, poi però c’è sempre una parte d’improvvisazione. In quel contesto nulla è poi pianificabile. Può accadere che s’incontri un battaglione che impedisce di andare in una determinata città ma poi, discutendo con i soldati e il comandante di posizione, sono magari loro stessi a proporre una meta o suggerire altro. Andare ‘alla garibaldina’ è un atteggiamento folle. Siamo professionisti, non pirati. Si deve sempre essere in grado di riconoscere che il piano che ci s’è dati non è quello giusto. Allora ci si deve riconvertire e darsi un nuovo obiettivo per portare a casa il lavoro nella sicurezza necessaria”. 

Ti muovi sempre con qualcuno oppure vai al seguito? Dell’esercito, ad esempio.

“Dipende da dove si è, ma nel Donbass è assolutamente normale che i reporter cerchino contatti e si muovano tramite le autorità militari. In altre situazioni, come le grandi città, invece no. Sono le associazioni, le ong che aiutano i rifugiati, gli stessi rifugiati a far da guida. Mentre nel teatro di guerra ci sono disposizioni di sicurezza in cui tutto è legato a uffici stampa o di sicurezza ucraini o proprio all’esercito. In genere ci si muove insieme per vari motivi: la divisione delle spese è uno di questi, ma lavorare da soli è molto più complicato mentre interfacciarsi permette di avere un altro punto di vista, condividere o meno scelte. Confrontarsi è sempre buono e giusto e anche fonte di sicurezza: controllarsi l’un l’altro, guardarsi le spalle”.

È limitante appoggiarsi all’esercito? “Embedded” è accezione negativa…

“Può essere limitante sotto diversi profili, ma va detto che nessun esercito al mondo ha dei doveri nei confronti della stampa. Nessun dovere se non quello, quando la stampa è presente, di garantire la sua sicurezza. Però qualsiasi comandante, per qualsiasi motivo, può rifiutarsi o può allontanare la stampa perché per l’esercito le priorità sono principalmente strategiche. Non è nell’interesse dei militari avere dei civili, è quel che siamo, esposti al pericolo quanto loro tra i piedi… Da un lato a loro va fatto anche capire che quel che facciamo è necessario, dall’altro o si fa così oppure si rischia di non far nulla. Però andare in determinati posti senza che l’esercito sia consapevole che tu sei lì, può esser anche peggio: per loro sei comunque in un’area operativa e puoi diventare tu stesso un obiettivo. Tu non lo sai, ma magari la zona è controllata da droni russi. L’esercito queste cose le sa, noi autonomamente no. Quindi ci si espone a grandi incognite sulla sicurezza, il che non è mai raccomandabile”.

Sei free lance, però t’appoggi o ti sei appoggiato a un’agenzia. Che rapporto e che vantaggi hai? Paga le spese, l’assicurazione, fornisce l’attrezzatura?

“No, purtroppo. A differenza dei nostri colleghi all’estero, noi siamo veramente molto autonomi. E non in senso positivo. La maggior parte di noi deve coprirsi le spese. Settimanali, quotidiani – lo dico sinceramente – sono pochissimi quelli che hanno avuto un fotografo a cui hanno coperto le spese. Si coprono quelle del corrispondente giornalista, ma ai fotografi non è stato riconosciuto nulla, se non il pagamento per la pubblicazione…”.

Beh, vorrei anche vedere non fosse così…

“Certo, ma ormai le agenzie si occupano più che altro della distribuzione delle immagini, fare in modo di piazzare più foto possibile sul maggior numero di testate. Ma 99 su 100, quando c’è una richiesta così alta come per il conflitto in Ucraina, questo passaggio viene bypassato perché le testate le foto richiedono direttamente al fornitore, il fotografo. È una situazione molto complessa e tanti nostri colleghi hanno realizzato che c’è un problema molto serio specie per quel che riguarda noi fotografi. Che, a differenza dei giornalisti, non fanno parte dell’Ordine. Ufficialmente siamo degli operatori, dei tecnici. Con tutte le difficoltà che ciò comporta nell’ottenere gli accrediti. Non abbiamo un tesserino che ci qualifichi e riconosca…”.

Sei iscritto all’Ordine?

“Non lo sono. Sono una partita Iva nella categoria reporter. Dimostra che sono un operatore che lavora con materiale videofotografico, ma non sono un giornalista, nonostante scriva articoli per diverse testate. È una situazione molto grigia, per questo non ci viene riconosciuta un’assicurazione, non ci sono testate che te la paghino, con viaggio e spese. Nei giornali stranieri – mi confronto con colleghi di Francia, Germania o Stati Uniti – è invece assolutamente normale che queste coperture ci siano”.

Vendi il servizio completo, testo e immagini. A chi?

“La maggior parte sono testate italiane: Ho collaborato col Foglio, Il Fatto Quotidiano, Millennium, il mensile del Fatto, e qualcosa è stato distribuito all’estero. Ma la maggior parte del flusso non è stato come fotografo ma da inviato tv per La7”. 

Hai un’attrezzatura tua?

“Sì, è mia”.

Non solo devi lavorare, ma nel frattempo devi procacciarti i clienti. Come fai?

“È una caratteristica del lavoro free lance: continuare a trovare il lavoro mentre sei lì che lavori. Non ci sono altre garanzie. È un’attività suppletiva, a cui ci si deve dedicare con cura. Forse è la principale fonte d’occupazione. Garantirsi il più possibile il flusso di lavoro. Le richieste sono tante, ma altrettanta è l’offerta. Solamente in Ucraina sono state decine, decine e decine le persone cercate dal mercato nazionale: giornalisti free lance, fotografi free lance, ogni genere di free lance. Non c’era spazio per tutti”.

Dove t’appoggi per lavorare, vivere, riposarti?

“Nelle città, come capita spesso – a Donetsk nel 2014, come ora in Ucraina o altre aree di crisi dove sono stato – solitamente gli hotel, detti anche Business Hotel, grandi, anonimi, con le sale conferenza, più che altro utilizzati per convegni, rimangono aperti e garantiscono solitamente un servizio minimo. Ma è ovvio che in determinati luoghi non ci sono. A Kramatorsk, l’unico posto aperto è un ostello che ha davvero poche camere, allora si trovano appartamenti privati. Lo stesso quando sono stato con Daniele Raineri e Cecilia Sala a Černivci: dormivamo negli scantinati dell’ospedale che ci ospitava. Capita di dormire nei bunker una notte, perché non ci sono altre strutture. Dipende. Per scrivere, si prendono appunti nel miglior modo possibile, note vocali sul cellulare o sul taccuino, poi la sera, con lo stesso computer con cui si scaricano e si editano le foto si scrive l’articolo. Ci sono poi difficoltà come la mancanza d’elettricità, connessione. È tutto un po’ così, e le commissioni sono sempre oggi per domani. A fine giornata nel giro di due ore si deve consegnare, la maggior parte delle redazioni chiude il numero in orari serali”. 

Hai mai paura?

“Costantemente. È come per un’attività agonistica. Ce l’hai, ma se riesci a gestirla riesci anche a gestire i tempi di recupero e quindi a lavorare. Capisci che però è meglio allontanarsi e prendersi una pausa quando la paura prende il sopravvento e diventa dominante. Ma è un elemento fondamentale. Il senso di pericolo, se gestito, permette d’esser più svegli sul campo. A volte bisogna esser pronti a cogliere il segnale: quando non si riesce a dominare l’ansia capita di prendere decisioni che possono compromettere, se non peggio, il lavoro che si sta facendo”. 

Cosa spinge a essere sempre in prima linea?

“Credo sia necessario. Nel senso che ci sono persone che fanno gli operatori, ci sono le associazioni non governative, i dottori che lavorano in ospedali da campo, poi ci sono altre figure – come noi – che invece hanno l’attitudine a raccontare la storia dal vivo, dove i fatti accadono, per portare a casa il loro racconto. Sento forte il senso del dovere per rispetto di chi sta subendo un conflitto o è sotto il giogo della criminalità, oppure subisce un disastro naturale, come mi è capitato nel 2010 ad Haiti”. 

Ne vale la pena?

“Ne vale sempre la pena e te ne rendi conto una volta tornato a casa”. 

Come vivi il distacco da quei luoghi quando rientri?

“Dipende molto dai ritmi che hai o ti dai. Per molti il ritmo è talmente alto che non c’è un vero e proprio ritorno a casa, perché magari si riparte subito per seguire altri conflitti in altre aree di crisi. All’inizio il rientro è sempre un po’ alienante, perché bisogna riabituarsi a una normalità che non si conosceva più”. 

(nella foto, Alfredo Bosco) 

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