di RICCARDO PIERONI

Richiede studio, voglia di approfondire e un’attenzione costante ai numeri. In Italia il data journalism viene praticato da pochi giornalisti e non gode di grande attenzione all’interno delle redazioni e tra i principali gruppi editoriali.

“Da noi il data journalism esiste da poco più di dieci anni. É nato in sordina, grazie al fermento sugli open data e all’iniziativa di un gruppo di persone”, racconta Cristina Da Rold, giornalista freelance che si occupa di sanità, diseguaglianze e gender gap su Info Data de Il Sole 24 ore.  

Una specializzazione giornalistica che ha difficoltà ad emergere nella penisola. “In generale si fa ancora poco e non sono molti i corsi seri che ti spiegano che cos’è. Nel data journalism bisogna specializzarsi. Il data journalist non usa soltanto i dati ma deve conoscere anche i contesti”, spiega la giornalista freelance.

una piccola comunita’

Il data journalism è ancora percepito come un qualcosa di aggiuntivo rispetto al giornalismo. “Viene visto come una cosa particolare. Per farlo devi avere ovviamente una serie di competenze, oltre a un programma di data visualizzazione. Ma si tratta di cose necessarie per fare bene qualsiasi specializzazione giornalistica. Pensiamo alla cronaca nera: se te ne occupi devi essere capace di leggere un’ordinanza di custodia cautelare. Il data journalism poi spaventa perché ci sono tanti numeri”, afferma Riccardo Saporiti, anche lui giornalista freelance che collabora con Info Data, VareseNews e Wired.   

“Io credo che rispetto ad altri paesi il giornalismo dei dati sia meno sviluppato perchè ci sono meno investimenti da parte dei grandi gruppi editoriali. Se facciamo raffronti con i prodotti editoriali di punta di alcuni paesi europei noi siamo ancora indietro”, spiega Raffaele Mastrolonardo, cofondatore dell’agenzia giornalistica Effecinque e data journalist che ha realizzato un serie di infografiche sul Coronavirus per Sky Tg 24 e per Il Secolo XIX. 

Se escludiamo alcuni casi virtuosi – come il già citato Info Data de Il Sole 24 Ore, il Visual Lab del Gruppo Gedi e il DataRoom curato da Milena Gabanelli sulle pagine del Corriere della Sera – il data journalism non trova spazio nei grandi gruppi editoriali italiani. Non è quindi una priorità nei piani alti di chi fa informazione, eppure viene fatto con costanza e impegno da una piccola comunità di giornalisti, in gran parte freelance ed esterni alle redazioni.    

lavori accurati

“Non siamo moltissimi e ci conosciamo quasi tutti. Ci diamo molti consigli. Non c’è questa grande concorrenza: l’obiettivo è che vengano pubblicati dei lavori accurati”, racconta Isaia Invernizzi, giornalista de Il Post con un passato a L’Eco di Bergamo, dove ha realizzato un’importante inchiesta di data journalism sui morti in eccesso a causa del Coronavirus.  

“C’è un piccolo nucleo di giornalisti che, durante la pandemia, si è incontrato virtualmente sul gruppo Facebook Dataninja. Ci scambiamo punti di vista, spunti e dataset. Una delle cose belle di questo approccio è lo spirito di condivisione e di reciproco aiuto”, spiega invece Ivano Porfiri, fondatore di Umbria24, l’unica realtà umbra che in questi mesi ha realizzato mappe e infografiche sul Coronavirus. 

Di questa piccola comunità fa parte anche Danilo De Rosa, giovane giornalista freelance che collabora da diversi mesi con Il Messaggero Veneto, quotidiano friulano del Gruppo Gedi fortemente radicato sul territorio. 

raccolta differenziata

“Lo scorso autunno mi trovavo a Bruxelles per fare uno stage al Parlamento europeo. Avevo già questa passione per i dati. Avevo studiato da autodidatta dopo la conclusione del mio percorso universitario. Quando rientrai in Italia decisi di propormi al Messaggero Veneto. Mandai una mail al direttore e lui mi rispose. Erano molto entusiasti e cercavano qualcuno che si occupasse di statistiche e infografiche sul Coronavirus. La collaborazione è nata in maniera spontanea”.  

De Rosa in questi mesi ha realizzato grafiche sulla pandemia, sui temi dell’inquinamento e della raccolta differenziata. Gran parte del suo lavoro è finito sul sito web del Messaggero Veneto.

L’emergenza Coronavirus ha visto una rincorsa continua al dato e alla percentuale.

Secondo Porfiri la sensibilità sul data journalism è aumentata “perché comunque la scienza e la statistica hanno fatto irruzione nella vita dei giornalisti ma anche nella vita delle persone”. Ciò ha comportato anche una certa impreparazione da parte di alcuni giornalisti poco avvezzi ai dati. “Molti si sono improvvisati nell’ultimo anno con alterne fortune. Io credo che ci sarà un’evoluzione positiva che comporterà un fatto: le grandi testate dovranno attrezzarsi sui dati. Potranno seguire esempi esteri, come la televisione di stato olandese che ha un piccolo nucleo di data journalist”. 

accelerazione dei grandi

Invece Mastrolonardo rileva come “anche all’interno dei grandi gruppi editoriali durante la pandemia abbiamo visto una crescita significativa della qualità dei prodotti e del giornalismo dei dati. C’è stata senz’altro un’accelerazione”.

Anche Invernizzi esprime osservazioni non troppo dissimili. “Sicuramente è aumentata l’attenzione. Dal Tg1 passando per i grandi giornali: tutti si sono trovati a dover leggere un grafico. Approcciarsi al mondo dei dati ha richiesto un grande sforzo. Nell’ultimo anno tantissimi giornalisti che non avevano mai analizzato un database si sono sporcati le mani”, spiega il giornalista de Il Post.

Da Rold invece evidenzia alcuni punti dolenti emersi durante l’emergenza Coronavirus. “Ci si è resi conto che manca la capacità di analizzare i numeri. Tutti quanti si sono dovuti occupare di dati da un giorno all’altro. Per capire la statistica medica servono competenze particolari che appunto hai se ti occupi di certi argomenti, se hai una formazione in merito, altrimenti rischi di fornire informazioni sbagliate. Con la pandemia ci siamo resi conto di quanti danni si possono fare raccontando i numeri a caso”, sostiene la giornalista freelance.

nessuna risposta

In Italia l’accesso e il reperimento dei dati non è così semplice. Si tratta di un ostacolo nel lavoro quotidiano del data journalist. 

“Servirebbe una maggiore attenzione al dato da parte delle pubbliche amministrazioni. In generale cominciano ad esserci sezioni open data, anche se a volte non sono aggiornatissime. Poi c’è un problema: molti le creano ma non mettono le licenze di riuso dei dati, complicando quindi il nostro lavoro”, spiega Saporiti. Inoltre per ottenere alcuni dati è necessario attivarsi in prima persona o appoggiarsi a una testata. “Nel 2019 Wired ha finanziato una mia inchiesta data driven sulle vaccinazioni in Italia. Abbiamo fatto una richiesta Foia per ottenere i dati da tutte le Asl. Wired ha creduto in questa iniziativa e siamo riusciti ad affrontare il tema”, racconta il giornalista freelance.    

Secondo Porfiri invece “le pubbliche amministrazioni con i dati non agiscono in modo univoco e coerente. A volte non rispondono nemmeno alle richieste di chiarimento che arrivano. Se tu mi pubblichi una tabellina in un file Pdf non mi stai mettendo nelle condizioni di lavorare facilmente. Mi metti in difficoltà”. 

formazione che manca

Nel nostro paese il data journalism incontra poi dei limiti culturali e delle resistenze nelle redazioni. “Non si è ancora capito che i dati sono uno dei linguaggi che il giornalista dovrebbe conoscere. Va senz’altro migliorata la formazione per i giornalisti sugli strumenti e le tecniche. Ma soprattutto va incentivata la formazione in data literacy, cioè la capacità di comprendere il linguaggio dei dati. Non tutti i giornalisti devono sapere usare gli strumenti però quasi tutti devono essere in grado di capire l’importanza dei dati”, sostiene Mastrolonardo. 

Secondo Da Rold “per migliorare la situazione occorre senz’altro investire nella formazione dei giornalisti presenti nelle redazioni. Formazione che non va intesa come un’ora di corso ma come un impegno costante e duraturo nel tempo. Nelle scuole di giornalismo poi bisognerebbe occuparsi di più dei dati. Inoltre occorre puntare sul giornalismo imprenditoriale. Il data journalism può essere un modo per innovare e creare nuove realtà giornalistiche”.

Per Invernizzi oltre alla formazione manca anche un approccio multidisciplinare.  “Spesso la volontà di fare data journalism viene relegata alla volontà dei singoli. Non ci sono ancora team che comprendano giornalisti, sviluppatori, data scientist ed esperti di user experience in grado di lavorare a un obiettivo comune. All’estero questo succede”.

(nella foto, Cristina Da Rold, del Sole 24 ore)

LASCIA UN COMMENTO