di RICCARDO PIERONI

Descrivere i problemi di un quartiere o i disservizi che interessano una piccola comunità. Fornire informazioni essenziali per chi vive in territori lontani – sia fisicamente che mentalmente – dai temi trattati dalle tv nazionali o dai quotidiani generalisti. Il ruolo del giornalismo locale va rivalutato.

Il giornalismo locale è in grado di raccontare argomenti di cui nessuno parla, di fornire un servizio pubblico per piccole comunità o per lettori disorientati dalla mole di informazione che ogni giorno passa in rete. In un’intervista a Il Ducato (giornale della Scuola di giornalismo di Urbino) il premio Pulitzer Bob Marshall evidenziava come il giornalismo locale «getta luce su cose spesso condannate al silenzio. I giornali sono consultati quotidianamente da tutte le persone che vogliono sapere cosa sta succedendo intorno a loro. Proprio per questo, negli ultimi anni di crisi dell’informazione, quelli che spesso hanno retto meglio l’urto sono stati i locali, in grado di dare le notizie che non potevano essere trovate da altre parti». Marshall nel 2005, anno dell’uragano Katrina in Louisiana, decise di rimanere a New Orleans per informare i lettori su quello che sarebbe poi diventato uno dei più grandi disastri ambientali della storia americana. L’anno successivo, il giornalista e i suoi collaboratori ricevevano il premio Pulitzer per aver offerto un prezioso servizio a una comunità disorientata.

uragano Katrina

I giornali locali possono comprendere più facilmente gli interessi dei propri lettori. Aspetto che non va affatto trascurato. Secondo Margaret Sullivan, editorialista ed esperta di media per il Washington Post, «il giornalista deve capire i bisogni dei cittadini, della realtà che lo circonda. Deve avere una relazione più stretta con le comunità. Altrimenti il lavoro di informazione prodotto non verrà riconosciuto. E nessuno sarà disposto a sostenerlo e pagarlo».

L’Italia ha una storia del giornalismo molto differente rispetto a quella degli Stati Uniti, ma gli ultimi mesi caratterizzati dal Coronavirus hanno mostrato come i giornali locali possano essere luoghi dove portare avanti battaglie che incidono sulla vita delle persone, spazi dove fare massa critica e raccogliere i problemi segnalati dai lettori.

realta’ nascosta

A marzo 2020 L’Eco di Bergamo – in collaborazione con l’agenzia di ricerca e analisi dati InTwig – si è reso protagonista di un’inchiesta sui 243 comuni del bergamasco per capire perché c’erano molti più morti rispetto agli anni precedenti. I giornalisti avevano inviato un modulo di raccolta dati a tutti i sindaci della zona. L’inchiesta ha certificato che in provincia di Bergamo sono morte oltre 5400 persone nel mese di marzo 2020, di cui circa 4.500 riconducibili al Coronavirus. Tra questi solo 2060 risultavano tra i decessi “ufficiali”. Degli altri invece non si sa molto. Come ha evidenziato il giornalista Isaia Invernizzi – oggi lavora a Il Post ma si è occupato dell’inchiesta de L’Eco di Bergamo – tra questi decessi non riconosciuti «molti sono anziani, morti nel letto di casa propria o nelle residenze sanitarie assistite. Nonostante i sintomi inequivocabili, come riportano le testimonianze di medici e famigliari, non sono stati sottoposti a tampone per accertare la positività alla malattia. Sul certificato di morte si legge solo “polmonite interstiziale”». I dati ufficiali hanno spiegato solo una parte della storia vissuta dalle comunità bergamasche durante i mesi più duri della pandemia. Una piccola testata locale – ma fortemente connessa con il proprio territorio – è riuscita quindi a far emergere una realtà nascosta o ignorata grazie a un lavoro di rete capillare.

storie e dati

Le realtà giornalistiche radicate nei territori hanno la possibilità di raccogliere pezzi che andranno a comporre un puzzle su una scala più ampia, verrebbe da dire nazionale o macroglobale. Pensiamo alla criminalità organizzata e al tema dei beni confiscati, questione fondamentale nella lotta alle mafie. Nel 2017 le testate locali del Gruppo Gedi – in collaborazione con Confiscati Bene e l’Istituto di formazione per il giornalismo dell’Università di Urbino – hanno dato vita a “Riprendiamoli. La sfida per i beni confiscati alla mafia”, un’inchiesta e un progetto di data journalism che ha consentito di censire il patrimonio che lo Stato ha sottratto alle mafie. Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza l’apporto dei giornali locali, che hanno contribuito a raccontare le storie dei beni confiscati da ogni parte d’Italia. Articoli che parlano di situazioni di quartiere o di provincia consentono quindi di fornire elementi preziosi per avere uno sguardo più ampio su un problema (la mafia) e su un tema connesso al problema (i beni confiscati). 

Come ha scritto qualche anno fa sul suo blog il giornalista Sergio Maistrello autore di diversi libri sul giornalismo digitale – negli ultimi anni  «il giornalismo ha servito a vario titolo progetti industriali, interessi legittimi e illegittimi, strategie di marketing, talvolta semplicemente se stesso. Non ha funzionato. Dovrebbe tornare a fare l’unica cosa che ha senso: prendersi cura. Delle persone, delle comunità, della loro capacità di vivere meglio attraverso un migliore accesso e una migliore gestione delle informazioni che favoriscono la consapevolezza e il benessere».

Se il giornalismo locale opererà nell’interesse dei propri lettori non è del tutto utopistico immaginare che in futuro possa avere un ruolo “di salvezza” nel recuperare la fiducia dilapidata e perduta nel corso degli anni dai professionisti dell’informazione.

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