di PAOLO BUTTURINI

L’intelligenza artificiale (A.I.) salverà il giornalismo? Sembra esserne convinto Marco Pratellesi nell’intervista di Andrea Garibaldi su Professionereporter.eu del 2 maggio (I giornalisti non devono aver paura). Io non sono così ottimista e vorrei sottolineare le perplessità che suscitano le affermazioni dell’ex vicedirettore di Agi e che articolerei su due piani: uno teorico-ideologico l’altro pratico-sindacale.

L’entusiasmo col quale Pratellesi presenta l’affacciarsi della A.I. sulla scena dell’informazione italiana (la collaborazione fra Ansa e Applied XLabs) tralascia molti interrogativi sul rapporto fra macchine e conoscenza. Per esempio, su chi determina i processi e i flussi informativi e sul controllo che un giornalista, o meglio una redazione, può esercitare su quel moloch del mondo digitale che si chiama algoritmo.

laboratori e marketing

Insomma, la questione è, per semplificare: la tecnologia è neutra? Io credo di no.

Ma ammettiamo che lo sia, le preoccupazioni restano. «In informatica, insieme di istruzioni che deve essere applicato per eseguire un’elaborazione o risolvere un problema», è la definizione che il vocabolario Treccani dà di algoritmo.

Mi chiedo: chi decide la tipologia e l’architettura di quell’insieme di istruzioni? La risposta di Pratellesi è: «Gli R&D lab, laboratori di ricerca e sviluppo nelle aziende editoriali, dove giornalisti, grafici, sviluppatori ed esperti di marketing studiano le strategie per migliorare il prodotto».

Ricordo che da decenni in Italia ci si arrovella, senza venirne a capo, su come separare la proprietà delle testate dalla loro gestione, per garantire l’autonomia dell’informazione. Pensare che la riposta sia un “laboratorio di ricerca e sviluppo” è, come minimo, ingenuo. Potete impostare in mille modi diversi una ricerca su Google, ma non sarete voi a selezionare i risultati e non saprete mai con quali filtri e con quali logiche arrivano sul vostro schermo. Quel che è certo è che sono monetizzati, quindi non neutrali.

Non sono un nostalgico e non penso si possa tornare alla composizione a caldo o alla Linotype, sono stato anzi un grande sostenitore (seguendo la lezione di un grande giurista come Stefano Rodotà) delle potenzialità democratiche della rete, ma per realizzarsi quelle potenzialità necessiterebbero di regole che nessuno, finora, è riuscito a imporre ai grandi player digitali.

In altre parole, bisognerebbe poter negoziare l’algoritmo sulla base di una separazione fra proprietà delle aziende e finalità del giornalismo. Un’ardua impresa che potrebbe riuscire soltanto a uno Stato provvisto di una strategia sul digitale e una classe imprenditoriale davvero interessata a produrre informazione di qualità.

esempi virtuosi

Che questo sia il nodo traspare anche dagli esempi virtuosi che cita lo stesso Pratellesi quando indica i casi “Implant Files” e “Panama papers” come modelli dell’utilizzo dell’A.I. in grandi inchieste. Ma non a caso sono opera dell’indipendente Consortium of Investigative Journalists.

Veniamo al piano pratico-sindacale. Fa sorridere la convinzione che l’eventuale introduzione dell’A.I. nel processo industriale dell’informazione italiana non avverrà a scapito dell’occupazione: “Tutte le grandi esperienze internazionali di giornalismo – sostiene Pratellesi -, quelle che funzionano…, utilizzano ormai diffusamente l’intelligenza artificiale. In molte di queste realtà i giornalisti sono cresciuti di numero”. A parte il fatto che si citano testate e Paesi (in particolare gli Usa) dove gli assetti, le risorse e la storia sono sideralmente lontani da quelli della nostrana industria dei media, vorrei sottolineare come non ci sia stato passaggio della modernizzazione tecnologica (dalla stampa a freddo fino alla digitalizzazione) che non si sia risolto in un taglio drastico degli organici. Una perdita di posti di lavoro che, nell’ultimo ventennio, ha causato la scomparsa di un’intera categoria, i poligrafici, e la riduzione di oltre il 30-40% dei giornalisti dipendenti. Si aggiunga la ormai strutturale precarizzazione del lavoro giornalistico, con migliaia di colleghe e colleghi senza tutele.

La Fieg in questi giorni ha chiesto al Governo 400 milioni di euro a fondo perduto per affrontare la crisi del post-pandemia, ammesso che le vengano concessi, dubito che intenda investirli contemporaneamente nell’innovazione tecnologica e nell’ampliamento degli organici. È molto più verosimile uno scenario (con tempi biblici) in cui si vada lentamente verso l’introduzione dell’A.I. in funzione sostitutiva del lavoro giornalistico, con conseguente, ulteriore, appiattimento del già devastato panorama informativo.

La competenza in materia di strategie per l’informazione digitale di Pratellesi è fuori discussione, così come la sua onestà intellettuale. Ma mentre leggevo l’intervista un nome mi rimbombava nelle orecchie: Julian Assange. Nessuno meglio di lui è la dimostrazione che la tecnologia (wikileaks) applicata all’informazione non è neutra e se ben usata viene repressa.

 

 

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