di MICHELE MEZZA

La coincidenza è troppo perfetta per essere solo la cornice di una strategia di marketing.

Il lancio del nuovo kolossal americano, il film “Civil War” del regista Alex Garland, che racconta di una prossima guerra civile che scompagina gli Stati Uniti, è una vera stressante cronaca del futuro. L’imminenza di elezioni presidenziali che si annunciano come uno scontro di sistema fra due paesi e non più fra due partiti, e da cui il film trae palesemente concetti e battute per spiegare come si possa arrivare ad uno scontro armato fra due fazioni antagoniste, non lascia spazio ai futurologi o ai semiologi. Stiamo parlando di un evento possibile, di una minaccia incombente.

biden e trump

Il tratto che unisce le due dimensioni che si incontrano -quella che abbiamo comunque alle nostre spalle ed è la vicenda già realizzata del conflitto politico fra Biden e Trump e quella invece ipotizzata di una vera guerra fra stati diversi dell’Unione americana- due dimensioni che si congiungono in un fuggevole e sempre cangiante presente, è la centralità dell’informazione come linguaggio, ma anche come modo di combattere. Il sociologo tedesco di origine coreana Byung-Chul Hang già qualche mese fa nel suo ultimo saggio “La crisi della narrazione” (Einaudi) scriveva che “la realtà stessa prende forma dell’informazione e dei dati. Essa viene informatizzata e datizzata”.

Un fenomeno che abbiamo sotto gli occhi in questi terribili anni di guerre vere e sanguinose, dove lo scontro militare si manifesta come racconto, come comunicazione permanente e personalizzata, in cui il giornalismo, scrivevamo nel nostro libro “Net War: in Ucraina il giornalismo cambia la guerra” (Donzelli editore), “diventa logistica militare”. 

cupola impenetrabile

La notte fra sabato e domenica scorse, segnata dall’attacco iraniano a Israele ne è stata una spettacolare, e per fortuna  senza danni materiali, dimostrazione: gli Ayatollah hanno mostrato al mondo la possibilità di colpire a distanza, Tel Aviv ha reagito con la sua cupola impenetrabile attorno ai centri abitati, che ha neutralizzato le centinaia di ordigni volanti. In entrambi i casi, come si dice nel marketing, il prodotto non coincideva con il suo contenuto -nel caso specifico era colpire l’avversario- ma con il suo racconto.

I media diventano così sistemi d’arma freddi, possiamo dire, per riprendere la nota definizione di Mc Luhan. Arsenali che concorrono alla guerra ibrida, in cui l’obbiettivo, come ha teorizzato il capo di stato maggiore russo Gerasimov, non è tanto il dominio sul campo quanto “interferire nel senso comune dell’opinione pubblica del paese avversario”.

manipolazione delle fonti

Una tendenza che ci investe direttamente come giornalisti, ponendoci con maggiore pressione il tema di quale ruolo giocare nel processo di manipolazione delle fonti medianti sistemi tecnologici in cui diventiamo pedine e vettori di un inquinamento delle prove. 

Nel film americano  si gioca continuamente su una distinzione fra la testimonianza dei giornalisti- tutta la trama è basata su un avventuroso viaggio di quattro cronisti attraverso il paese in fiamme- e il ruolo dei media. In sostanza si separa l’attività artigianale di chi si avvicina ai fatti per raccontarli e la strategia e il comportamento degli apparati mediatici che sono diventate vere e proprie fabbriche di “post verità”. Uno scenario che, come per la guerra civile americana, nella sua apocalittica dimensione comincia a diventare in qualche modo riconoscibile. 

categorie di profilazione

Se guardiamo da vicino i sistemi editoriali, dove la componente di fabbricazione digitale dei messaggi che vengono sempre più personalizzati e frantumati per categorie di profilazione prevale sulle attività tradizionali di redazione, ci accorgiamo come stanno diventando centrali figure professionali e funzioni che poco hanno a che fare con il mondo del giornalismo, le sue regole e i suoi valori.

Questo sta diventando abbagliante nei grandi gruppi americani, nei nuovi centri di informazione social, dove ormai la direzione anche quotidiana delle news è sempre più agganciata automaticamente a sistemi di misurazione del gradimento dei singoli utenti. Ma qualcosa ormai non di diverso sta accadendo anche nelle testate a noi più vicine.

fiore all’occhiello

Il recente bilancio presentato da Exxor, la finanziaria di Casa Agnelli che controlla Repubblica e la Stampa, ne è stato un esempio. Il presidente John Elkann nell’illustrare il capitolo di Gedi, la capogruppo delle attività editoriali in Italia della finanziaria, non ha mai parlato delle singole testate, benché Repubblica sia chiaramente un fiore all’occhiello, ma solo dei singoli capitoli industriali dei servizi che fornisce la sezione editoriale nel suo processo di completa digitalizzazione. Anche per il Corriere della sera l’aumento del peso dei ricavi da attività on line segna un cambio radicale, sia nell’architettura organizzativa, sia nelle competenze e funzioni che diventano essenziali. 

il destino dei mediatori

Il nodo diventa dunque  una divaricazione fra l’evoluzione del sistema mediatico e il destino dei mediatori. Un fenomeno che andrebbe subito decifrato per dedurne possibili contro mosse. Se, come sembra ormai inevitabile, il futuro del sistema professionale dell’informazione è connesso alle modalità di personalizzazione delle notizie e dei servizi editoriali, che non possono non essere gestiti con protesi digitali e intelligenti, allora la nostra categoria deve insediarsi proprio in questo snodo, dove la propria esperienza e cultura professionale diventa capacità di progettazione e di addestramento dei sistemi che devono essere rigidamente supervisionati a monte da giornalisti, ed alimentati a valle da cronisti.

Il rischio è di diventare le prima vittime di una guerra civile professionale fra media e mediatori.

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