di ROBERTO SEGHETTI

Nel giornalismo ci sono modi di dire che possono favorire l’insorgere di idee sbagliate, soprattutto se a leggerli o ad ascoltarli ci sono persone che non hanno strumenti critici per decifrare il vero significato delle parole. 

Uno di questi modi di dire altamente ambigui riguarda il tema dell’inflazione e viene usato ogni volta che l’Istat rende note le ultime rilevazioni, compresa quella della vigilia della Befana. 

Partiamo dai dati. Nel 2022 l’inflazione in Italia ha toccato il valore record dell’8,1 per cento. Nel 2023 l’inflazione è stata, in base alle rilevazioni ufficiali dell’Istat, del 5,7 per cento.

chi paga il conto

Di fronte a questi risultati non c’è quotidiano, tg o radiogiornale che non abbia scritto e detto che “l’inflazione cala” o addirittura che “i prezzi calano”. Tanto per fare qualche esempio, “Prezzi in calo dall’8,1 al 5,7% ma gli alimentari salgono”, ha titolato il Corriere della Sera. “Istat: la “tassa occulta” ha raggiunto il 16,2%. Inflazione: ecco chi paga il conto” ha scritto significativamente La Repubblica in prima pagina. Ma poi, nell’approfondimento a pagina 6, ha titolato: “In discesa prezzi e carrello della spesa”. “Scendono prezzi e tasse”, ha scritto Il Tempo. E via così.   

La frase “l’inflazione è in calo” è vera, ma se non viene spiegata ha un significato pieno di insidie interpretative e di ambivalenze. Lo sanno tutti i giornalisti ed è considerato banale anche solo dirlo, però poi ben pochi agiscono di conseguenza. 

progressiva sfiducia

Il significato concreto è che il ritmo dell’aumento dei prezzi al consumo rallenta. E questo è un dato certamente positivo: significa che l’inflazione in futuro eroderà meno il potere di acquisto dei redditi disponibili per la spesa delle famiglie.

Il punto che viene lasciato in cantina è che il rallentamento dell’inflazione non significa che i prezzi stanno tornando al punto di prima: significa solo che l’ulteriore erosione del valore dei redditi sarà da quel momento inferiore a quella che c’è stata fino a quel punto.

È addirittura banale ricordarlo. Ma va fatto, perché le persone vanno al mercato o fanno il pieno di benzina e si rendono conto che i prezzi sono cresciuti, eccome se sono cresciuti, ma poi sentono che “l’inflazione è in calo” e restano perplesse: questa contraddizione comunicativa genera una progressiva sfiducia nei dati ufficiali e anche nei giornali che li riportano in quel modo. 

spargere camomilla

Basta un esempio per rendersene conto: se un impiegato percepiva nel gennaio 2022 uno stipendio mensile di 2000 euro al mese, l’aumento dei prezzi ha fatto sì che oggi potrebbe acquistare la stessa quantità di beni solo se avesse uno stipendio di 2.312,00 euro (calcolo automatico fatto dallo strumento di rivalutazione monetaria dell’Istat base 2022 su novembre 2023). Una botta micidiale, considerato che nel 2022 c’è stato appunto un aumento dei prezzi dell’8,1 per cento e che sul nuovo livello dei prezzi raggiunto nel gennaio 2023 c’è stato l’anno scorso un ulteriore aumento dei prezzi al consumo del 5,7 per cento (vedi, appunto, il titolo di Repubblica in prima pagina).

Ricordarlo significa far capire bene che cosa è accaduto, ma anche dare la possibilità di decidere di organizzarsi e di agire per recuperare potere di acquisto da parte di lavoratori dipendenti e di pensionati (i lavoratori autonomi recuperano aumentando il prezzo del proprio lavoro o della propria merce). Non ricordarlo, cioè non spiegare che inflazione in calo non significa che i prezzi ri-scendono dopo essere aumentati, significa spargere, oltre che informazioni ambigue, camomilla per placare eventuali spinte rivendicative, in un paese che ha visto negli ultimi 30 anni il valore reale degli stipendi (cioè al netto dell’inflazione) ridursi invece di crescere come è avvenuto negli altri paesi avanzati (dati Ocse, per chi volesse approfondire il tema).  

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