di LUCIANA BORSATTI

Le proteste in corso in Iran sono un fenomeno straordinario, che rivela il coraggio e la determinazione dei dimostranti nonostante una violenta repressione. Straordinario anche perché le rivendicazioni vanno ben oltre l’obbligo del velo e investono la legittimità stessa della Repubblica Islamica, contro la cui massima autorità politica e religiosa, Ali Khamenei, si rivolgono gli slogan “morte del dittatore”. Ma le proteste riguardano anche altre cause del dolore e dell’esasperazione in cui vivono da anni milioni di iraniani: dall’impoverimento alle crisi ambientali, dalla speculazione edilizia, alla richiesta di giustizia per le vittime dell’abbattimento di un volo civile da parte della contraerea iraniana – il padre e marito di due di queste, l’irano-canadese Hamed Esmaeilion,  è un importante punto di riferimento del movimento https://bit.ly/3W1uLpG  .

La “giusta distanza”

Da giornalisti dobbiamo raccogliere le voci dei manifestanti, che il governo vorrebbe soffocare bloccando quotidianamente internet. Al tempo stesso sarebbe sbagliato limitarsi a raccontare il movimento (magari innamorandosene) e a denunciare la repressione, trascurando i limiti del movimento stesso e il suo contesto politico. E’ fondamentale per esempio ricordare come al movimento manchino leader di peso (gli ultimi sono stati imprigionati o costretti all’esilio nella repressione del 2009), e una strategia politica su come far crollare e poi sostituire le strutture della Repubblica Islamica – la quale, d’altra parte, è tutt’altro che priva di sostegno ideologico e sociale tra alcuni ceti e categorie. Certo, tra i manifestanti vi possono essere leader che ancora non vediamo.  Ma è legittimo chiedersi se siano in grado di tenere le redini di un movimento interno e spontaneo, un boccone troppo ghiotto per quanti, fra i tanti nemici della Repubblica Islamica, non vedrebbero l’ora di occupare il vuoto lasciato da un’organizzazione troppo “liquida”.

Insomma, non si può soltanto dare voce a chi protesta: si deve anche raccontare cosa dice e pensa chi alle proteste non partecipa, e non trascurare la realtà di un apparato politico e repressivo che – almeno ad avviso di chi scrive – resta ben saldo al potere. Per essere corretta e imparziale, l’informazione deve essere “completa”. A meno che non si decida di fare un giornalismo militante: opzione lecita ma che va dichiarata, pena il discredito per tutta la professione.

L’addio dei corrispondenti

Partiamo dagli Stati Uniti. Perché buona parte dell’informazione sulle proteste  che approda sui desk delle nostre testate passa da Washington – da 40 anni in tensione con la Repubblica Islamica – e dalla Gran Bretagna – sempre vista con diffidenza da Teheran. E perché buona parte delle notizie che escono attraverso i social sono in persiano e vengono tradotte e rielaborate dai media anglosassoni. Parliamo in particolare della BBC e del New York Times, ma anche di Voice of America o Radio Farda, entrambi finanziati dal Congresso Usa. Oppure di “Iran International”, società privata basata a Londra ma finanziata con fondi sauditi, secondo autorevoli fonti. O ancora di Iranwire, basato anch’esso nel Regno Unito e gestito da giornalisti della diaspora e da “citizen journalist” dall’ Iran, fondato nel 2013 dal collega irano-canadese Maziar Bahari, finito in carcere nel 2009.

Difficile d’altronde per i media italiani avere molte fonti di prima mano: corrispondenti italiani a Teheran non ve ne sono, i visti giornalistici si possono sempre chiedere ma non è automatico che siano rilasciati. Va da sé che la maggior parte dei nostri media riproduca le narrative prodotte altrove.

L’informazione sui social

Accanto alle testate straniere c’è il grande mare di internet e dei social media, dal quale pescare una sovrabbondanza di notizie, foto e video moltiplicati all’infinito su Instagram e Twitter. Fra questi materiali, e tra innumerevoli account spesso anonimi, è sempre più difficile discriminare, verificare, individuare le fonti, distinguere fra notizie e propaganda, tra notizie e wishful thinking di quanti vorrebbero che queste #Iranprotest2022 divenissero davvero una #Iranrevolution. Vi sono poi alcuni grandi influencer,  come l’attivista irano-americana Masih Alinejad, che nel 2019 si era fatta fotografare con l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo, proprio durante quella campagna Usa di “massima pressione” che molti auspicavano sfociasse in proteste di massa capaci di abbattere la Repubblica Islamica.

 

Un giornalista e analista iraniano, che preferisce rimanere anonimo, mi scriveva nei giorni scorsi da Teheran: “Per come la vedo io, è fondamentalmente la battaglia delle narrazioni. Questa volta è più sofisticata delle precedenti proteste. In realtà è una guerra mediatica a tutto campo contro l’integrità (territoriale, ndr) stessa dell’Iran nel nome dell’innocente Mahsa Amini. Per quanto ne so, c’erano circa 2500 membri dell’MKO (organizzazione dell’opposizione iraniana all’estero che da qualche anno ha sede a Tirana, dove svolge un’intensa attività di propaganda online, ndr. ) che bombardavano i social media solo con messaggi anti-Iran, ciascuno dei quali creava due dozzine di account falsi.  (…). Quello che si vede sui social media e nei canali televisivi in lingua farsi all’estero è molto diverso da quello che c’è sul campo. Per me – proseguiva- il motivo per cui sono scoppiate le proteste è dovuto a due fattori principali: 1- La bigotteria da parte del sistema di governo, in particolare la polizia morale. Questa sta imponendo costi molto alti al Paese;  2- Un piano progettato dall’estero per “sirianizzare” l’Iran, che cerca di disintegrare il Paese (cosa per me più grave che cercare di rovesciare il sistema di governo)”.

Le ingerenze esterne

Da una parte dunque il collega guarda con scetticismo alle proteste e dall’altra suggerisce che potenze straniere strumentalizzino il movimento. E induce a chiedersi: quanto il suo punto di vista, che in parte richiama la narrativa ufficiale, è diffuso nel Paese? La risposta non è semplice, ma la questione resta valida.  Quanto a Khamenei, il 3 ottobre ha detto: “Questi fatti sono pianificati dall’America, da Israele e dai loro alleati. Il loro principale problema sta in un Iran forte e indipendente e nel progresso del Paese”. Anche queste argomentazioni non possono essere liquidate come semplice propaganda di regime: andrebbero invece passate al vaglio di elementi fattuali e valutate alla luce di quanto consenso abbiano nel Paese. Se questo consenso si limitasse anche solo alla seconda generazione delle Guardie della rivoluzione – che non solo controllano gli apparati militari  e buona parte dell’economia, ma si stanno forse anche preparando a guidare la transizione del dopo-Khamenei – il suo peso non può essere omesso dalle nostre cronache.

Non va inoltre sottovalutato l’elemento nazionalistico insito nella denuncia, nella narrativa ufficiale, di infiltrazioni di potenze ostili. In questo elemento vi è infatti una continuità tra le pressioni esterne subite dalla Repubblica islamica nei suoi 43 anni di vita e il precedente del colpo di stato del 1953 contro il primo ministro Mohammad Mossadeq, che aveva nazionalizzato l’Anglo-Iranian Oil Company. Ad agire allora sarebbero stati anche i servizi segreti britannici e americani. Possiamo liquidarlo come uso propagandistico della storia, per giustificare la repressione del dissenso? Non prima di aver indagato su quanto sia radicato l’orgoglio nazionale tra gli iraniani,  e anche fra quei ragazzi che ora rischiano la vita in strada. Vorrebbero forse che la  loro protesta venisse scippata e presa in mano da altri?

L’auspicio radicale

In realtà qualche politico lo ha già esplicitamente ipotizzato. E’ il caso per esempio del segretario del Partito Radicale Maurizio Turco che, in un intervento del 16 ottobre su Radio Radicale https://bit.ly/3gv7H25  afferma: “Io mi auguro che i servizi segreti occidentali americani, europei, israeliani siano in condizioni di dare una mano a questa lotta di liberazione in corso in Iran, e non semplicemente di attendere come fosse una questione interna. (Una lotta, ndr)  di valori e di principi che, laddove vengono censurati, repressi”  producono “una ribellione popolare (…). La miccia parte sempre dal popolo, dopo di che per esplodere ha bisogno di grossi aiuti e io spero che ci si determini a fornirli, perché quello della democrazia fondata sullo stato di diritto in Iran è un passaggio fondamentale per la liberazione del popolo iraniano, come anche di altri popoli oppressi, liberazione che non può essere oggetto di trattazione con gli autocrati e i dittatori”.  Insomma, un invito all’Occidente ad entrare a gamba tesa anche nelle vicende interne iraniane, e non solo nella guerra di Putin contro l’Ucraina. E chissà in quante altre.

La bussola per navigare

In un rapporto https://stanford.io/3F6Dhxz dello Stanford Internet Observatory e di Graphika, pubblicato il 24 agosto 2022 (ne parla il Washington Post del 19 settembre), si analizza una vasta rete di account  rimossi da Facebook, Instagram e Twitter e altri cinque social media. Tale rete, vi si legge, “probabilmente ha avuto origine negli Stati Uniti e ha preso di mira una serie di paesi del Medio Oriente e del centro Asia” per promuovere, con “tattiche ingannevoli”,  “narrazioni filo-occidentali”.  “Campagne segrete” in corso da quasi cinque anni,  che promuovevano “narrazioni” favorevoli agli “interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati, mentre si opponevano a Paesi tra cui Russia, Cina e Iran”. Si trattava dunque di una massiccia operazione informativa i cui autori e obiettivi sfuggivano agli utenti. Ma la sua stessa esistenza ci dovrebbe rendere ancora più prudenti quando ci avventuriamo nel vasto mare dei social, chissà quanto inquinati da eserciti di nuovi bot e troll nelle ultime settimane –  senza dotarci di una buona bussola.  E di bussola ce ne dovrebbe avere una sola: quella della verifica dei fatti e delle fonti, e quella del dovere di mantenere la “terzietà” del giornalista.

Campagne denigratorie e liste

Chi si occupa di cronache iraniane si sarà forse già imbattuto sia nelle campagne denigratorie contro i giornalisti scomodi sia nelle liste di proscrizione. Il fenomeno riguarda soprattutto gli Stati Uniti, dove vi è un acceso conflitto interno alla diaspora iraniana tra chi ha finora sostenuto la via diplomatica come strada migliore per difendere i diritti dei connazionali in patria – una linea  adottata dal National Iranian American Council (Niac), convinto anche che gli iraniani debbano essere i soli a decidere del loro futuro –  e i falchi del cambio di regime a qualunque costo, compreso quello dell’intervento dall’esterno. Da settimane è partita una pesante campagna denigratoria nei confronti di alcuni analisti e giornalisti, in particolare donne, riconducibili al Niac e accusati di fare lobby per la Repubblica Islamica. La loro colpa sarebbe in sostanza quella di non limitarsi alla narrativa delle proteste più gradita ai sostenitori della #IranRevolution.

Nel loro piccolo, anche alcuni  elementi della diaspora iraniana in Italia hanno cominciato a fare altrettanto, prendendo come bersaglio giornalisti e analisti loro sgraditi, spesso vittime di un diffamante chiacchiericcio online, e perfino stilandone una lista pubblicata qualche giorno fa su una piattaforma social. Che tale lista sia stata tolta o meno, si tratta comunque di un pessimo precedente. Che potrebbe far pensare il peggio, sul vero spirito democratico di certi dissidenti all’estero.

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