di VITTORIO ROIDI

Il governo di Giorgia Meloni avrà altro a cui pensare nei prossimi mesi, ma servirebbe proprio una riforma della legge sull’Ordine dei giornalisti. Speriamo che le nuove Camere trovino presto il tempo almeno per affrontare le questioni delle querele temerarie, del precariato, delle aggressioni ai cronisti. Ma la legge che entrò in vigore il 3 febbraio del 1963 è difficile che possa modificarla. Qualsiasi legge, se ha compiuto 60 anni, è vecchia, ma la nostra lo è ancora di più, considerati i cambiamenti che sono arrivati nell’ultimo mezzo secolo.

Quando il Parlamento la discusse, c‘era la carta stampata, c’era la radio e una tv alle prime armi. Solo con questi “media” i giornalisti diffondevano le notizie che trovavano. Oggi devono saper utilizzare tanti altri strumenti e per di più devono guardarsi dalla concorrenza dei cosiddetti social, che li delegittimano, ma che molte persone adorano perché consentono di parlarsi addosso e di esibirsi, pur sapendo quanti veleni, e falsità e sciocchezze possano mettere in circolazione. 

allargamento e inclusione

Di proporre modifiche si sta occupando il Consiglio nazionale dell’Ordine. L’idea che molti condividono si può riassumere con il termine “allargamento”, o se si preferisce “inclusione”. Ammettere nella famiglia anche figure nuove che finora sono state tenute ai margini. Nel ’63 Camera e Senato (ma ne aveva discusso anche l’Assemblea costituente, non molti anni prima) avevano stabilito che i giornalisti dovessero essere professionisti o pubblicisti. Ai primi veniva assegnato il ruolo portante, dentro le redazioni e con l’obbligo di esclusività (vietate altre attività); mentre i secondi avrebbero potuto scrivere, pubblicare ed avere quindi un tesserino di diverso colore svolgendo in contemporanea altri lavori, ciò al fine di arricchire i giornali con informazioni o opinioni offerti da collaboratori, anche contrattualizzati.

Poi, un po’ alla volta, professionisti e pubblicisti si sono mischiati, perché in tal modo gli editori assumevano un minor numero di professionisti e spendevano meno. Questo è stato il primo “fenomeno”, che ha messo in discussione la bipartizione iniziale e che è stato accompagnato dalla sempre più forte presenza di lavoro autonomo, accanto ai redattori veri e propri assunti a tempo indeterminato dalle aziende. Contemporaneamente si è assistito al riconoscimento della qualifica “professionale” (come la chiama la Fnsi) a figure che hanno acquistato sempre più peso nell’opera di ricerca e di produzione delle notizie (fotografi, grafici, disegnatori ecc).   

visibilità delle notizie

Oggi si discute di un ulteriore allargamento: aprire le porte dell’Albo a ingegneri, tecnici, esperti del web (Social media manager,  Seo), che hanno un compito a molti sconosciuto: cambiano i titoli, le parole, l’approccio di una notizia prima che venga lanciata su un piattaforma social. Sono colleghi che sanno come è fatto l’algoritmo di Google e studiano come catturare l‘aggancio ai motori di ricerca, allo scopo di avere “contatti”, link, diffusione capillare e dunque pubblicità, soldi che entrano nelle casse dell’azienda. Possono questi signori essere chiamati anch’essi giornalisti visto che contribuiscono ad aumentare la “visibilità” delle notizie? Ce l’hanno tutti, a partire dal New York Times. In alcune testate il compito è svolto da un redattore, spesso un capo, che si specializza in “titoli per Google”. In altre testate invece il mago degli automatismi è un tecnico esterno. Merita ed è possibile farlo entrare nell’Albo dei giornalisti? 

Chi scuote subito la testa passa per retrogrado, è bollato come uno che non vuole adeguarsi alla modernità. Una risposta ragionata può essere data dalla stessa legge del’63. Poiché nelle scuole di giornalismo può fare il praticantato anche un laureato in ingegneria o in matematica, il percorso esistente (che si conclude con l’esame di Stato) può riguardare anche uno di questi signori. Venga assunto e faccia anche lui i 18 mesi di praticantato. Ma non si inventino scorciatoie. Non si vede perché dovrebbe accedere all’Albo attraverso corsi sostitutivi e rabberciati, che ci porterebbero ad avere professionisti di serie A e B. A fronte di quelli che escono dalle scuole pluripreparati, addestrati per diverse piattaforme, avremmo professionisti monofunzionali, entrati frettolosamente. Finché la legge è questa, modifiche simili non sono immaginabili. Naturalmente sarebbe più semplice allargare la sfera del pubblicista, visto che al suo interno già nel 1963 furono accolti esponenti di attività diverse che apparivano, o apparvero in tempi successivi, importanti nel processo produttivo.

insopprimibile e inderogabile

Se si vuole dare alla collettività un giornalismo migliore, poiché il mondo è cambiato, certo può essere utile aumentare le specificità di coloro che possono partecipano ai diversi momenti dell’attività di informazione. Poiché la modifica della legge n. 69 la farà il Parlamento, essa dovrà per prima cosa confermare o cancellare la frase che per 60 anni ha costituito il perno della professione: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”. Libertà insopprimibile e verità inderogabile, parole che impegnano gli iscritti, quali che siano le doti, la preparazione e la specializzazione che apporteranno alla formazione delle notizie. Chi sarà giornalista dovrà esserlo a 360 gradi, occuparsi, in qualsiasi forma e con qualsiasi strumento, di cercare e garantire informazioni accertate. Mentre il modo con cui si possono catturare più lettori – anche se da ciò può dipendere il suo stipendio –  è mestiere non suo, ma dell’editore.

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