di ALBERTO FERRIGOLO

Da alcuni giorni, complice anche la crisi italiana di governo, le dimissioni di Draghi, il puzzle delle correnti e delle divisioni tra i Cinque Stelle, dalle prime pagine dei giornali la guerra in Ucraina è di fatto (quasi) scomparsa. Ridotta, al più, a qualche “finestra” o richiamo. Anche il numero delle pagine dedicate s’è ridotto sensibilmente. E forse non poteva essere che così, visto che siamo ormai allo scadere del quinto mese di conflitto, come annota Marta Serafini, 42 anni, inviata del Corriere della Sera in Ucraina, dal 2015 in forza alla redazione Esteri, già inviata in Siria, Iraq, Afghanistan: “Succede un po’ in tutte le guerre: nella prima fase c’è sovraesposizione, poi cala. È un po’ il nostro sistema di comunicazione che s’è trasformato”.  

Quello in Ucraina non è il tuo primo conflitto. Com’è questa guerra vista da dentro?

“Dal punto di vista del racconto, nei primi mesi per certi aspetti è stata più semplice di altre, il pubblico ha empatizzato molto, l’ha sentita più vicina per questioni prima di tutto geografiche, culturali, geopolitiche. Perciò tutta una parte del lavoro che si deve fare per tener alta l’attenzione, rispetto a conflitti che sono apparentemente più lontani, come il Medioriente o l’Afghanistan, questa parte è stata meno difficile, meno complicata. Il Medioriente è distante culturalmente, a cominciare dai nomi, di luoghi e persone. Paradossalmente, per certi versi, è anche più interessante raccontarlo, però comporta un lavoro di studio e di comprensione della società in cui ti muovi più approfondita. Se in Ucraina prima non avevo mai lavorato, non sono un’esperta, non conoscevo il Paese, diciamo che entrarci e capirla è stata una cosa abbastanza immediata”. 

La cosa più difficile con la quale ti sei scontrata qual è?

“La cosa più difficile, ma questo è un grande classico, è che si deve lavorare embedded, di fatto lo siamo tutti. Poi c’è chi è andato a raccontare pure il lato russo e chi ha scelto invece il versante ucraino. Questo cosa comporta? Che hai comunque una visione limitata del conflitto. Vale per tutti i conflitti, sicuramente, ma per questo lo è in modo particolare. Senti che esiste una cortina oltre la quale non sai cosa succede. Nel caso ucraino si sente molto, non abbiamo accesso a qualsiasi posto e non possiamo fare tutto quello che vogliamo”.

Insomma, è come trovarsi di fronte a un puzzle di informazioni che poi bisogna ricostruire per darne una visione unitaria. Tu come le ricostruisci?

“Bisogna cercare il più possibile di verificare le fonti, e non sempre è facile. Nel caso di bombardamenti su obiettivi militari, per esempio, non hai accesso ai luoghi e quindi non sai come e cosa è successo. Magari poi ti viene detto ‘questa era una scuola’, ma è sempre necessario andare sul posto e verificare con i propri occhi. Questa è la regola, sempre e comunque. Stiamo parlando di un Paese molto grande, dove le distanze sono immense e verificare con i propri occhi non sempre è possibile. Allora, quando non può accadere, bisogna vigilare e tenere presente che in guerra la propaganda è sempre all’opera e la prima vittima, banale dirlo, è proprio la verità. L’abbiamo visto anche in occasione degli stupri. Quando si parla di stupri bisogna stare attenti perché ci sono delle informazioni che vanno verificate di persona per non cadere nel sensazionalismo, che è sempre il rischio più grande di quando si raccontano le guerre: cadere nella pornografia del dolore, del cercare a tutti i costi le immagini del sangue, della morte, che è giusto comunque raccontare, ma ci vuole un equilibrio e un lavoro di rielaborazione continuo”.

Cosa ti prefiggi di raccontare ogni giorno? Perché ci sono le notizie che s’impongono ogni giorno e che vanno seguite, ci sono i suggerimenti del giornale, le agenzie che fanno l’agenda, le fonti personali. Come ti destreggi in questo labirinto?

“Sono stata in front line più volte in questi mesi, però la mia priorità, soprattutto in questa fase, è quella di fare un racconto della vita quotidiana dei civili, in particolare donne e bambini, che sono i primi a non avere voce nel mezzo dei conflitti. Cerco di raccontare la parte di società civile che sta subito dietro la front line, dare voce a chi nei conflitti voce non ha e che i conflitti non li decide. E poi anche di dare conto di tutto ciò che attiene alle implicazioni economiche, agli aspetti storici e culturali che riguardano il Paese. Ci sono delle radici di questo conflitto che conosciamo poco, penso a livello culturale a tutto il racconto sulla zona di Zaporižžja, o alla parte storica che riguarda lo scontro tra Russia e Ucraina e che risale a ben prima della Guerra Fredda. Penso a tutta la storia dei cosacchi. Quando si racconta un conflitto si raccontano i movimenti delle truppe, la front line, ma dare anche conto delle radici storico-politiche di un conflitto e di un Paese è sempre necessario”.

Cerchi di raccontare, se così lo si può definire, il lato “più umano” della guerra.

“Umano, storico, politico, economico”. 

Ti basi anche su fonti tue, personali o fai uso degli intermediari locali, delle guide del posto? 

“Gli intermediari locali sono necessari, se non indispensabili. Senza di loro non saremmo praticamente nulla. Sono i nostri occhi, le nostre orecchie, la nostra voce. A meno che non si abbia una conoscenza linguistica profonda del luogo in cui ci si trova. Ma quasi nessuno ce l’ha. Certo, c’è pure qualche collega più esperto che ce l’ha, ma è molto, molto difficile che ci si possa muovere da soli in un Paese dove non hai praticamente contatti. Vale per qualunque conflitto, per qualunque posto della terra attraversato da guerre. È necessario appoggiarsi a persone esperte, collaboratori, fixer. Ma più spesso sono anche qualcosa di più, senza di loro molte cose non le vedrei, non le capirei. Alla fine diventano anche rapporti e legami molto personali, di amicizia”.

 

Sarà perché è una guerra vicina, combattuta nel cuore dell’Europa, in ogni caso ha avuto una copertura mediatica piuttosto ampia, tra giornalisti accreditati, ufficiali e i tanti free lance. Non c’è il rischio di un’inflazione di inviati, di corrispondenti, di un surplus informativo?

“Direi di no. Più giornalisti ci sono sul campo meglio è. Andare in guerra richiede però una indispensabile preparazione. Non si può improvvisare, prendere e partire come fosse un viaggio di piacere. Il problema non è tanto la differenza tra l’essere freelance o parte d’uno staff, la differenza riguarda capacità ed equilibrio. E avere gli strumenti per rielaborare quello che si vede e racconta. Poi, succede un po’ in tutte le guerre: nel corso della prima ondata c’è una sovraesposizione, per i primi quindici giorni tutti quanti leggono solo notizie sull’Ucraina, poi smettono perché l’attenzione comincia a calare e si volta pagina”.

Personalmente, come ti sei preparata per questo conflitto? Come ti sei formata? Hai seguito corsi, ti sei appoggiata all’esercito? Quali sono le cose che contano di più in un conflitto?

“Contano molto gli strumenti e la capacità di rielaborazione. Da un punto di vista politico e culturale mi sono formata studiando Relazioni internazionali. Ho approfondito, seguito corsi. Dal punto di vista tecnico sono più laica: è giustissimo e sacrosanto fare corsi, però non esiste corso che ti possa preparare alla guerra. Non c’è un manuale, un prontuario di istruzioni per l’uso. Sicuramente l’esperienza che s’accumula sul campo è la cosa fondamentale. Certo, conta poi avere consapevolezza, sapere come muoversi, che serve un accredito, cosa significa essere embedded, cosa è necessario, come – ad esempio – portarsi appresso il giubbetto antiproiettile, il casco. Non si va all’avventura, altrimenti è meglio stare a casa. Per la propria e anche altrui incolumità”.        

 

C’è una specificità femminile, un punto di vista particolare nel racconto di questa guerra che in genere non riscontri negli uomini?

“Sicuramente in questa guerra, per fortuna, le colleghe sul campo sono state e sono tantissime, bravissime. Ed è importante perché solo così si ha una visione del conflitto davvero a 360 gradi. Il che non significa che le donne devono stare nelle retrovie e raccontare solo i civili e non andare sulla linea del fronte, assolutamente no. Altrimenti passa anche il concetto, l’errore, che le donne non siano in grado di raccontare anche l’aspetto militare. L’ha raccontato e detto molto meglio di quanto lo possa fare io la giornalista Svetlana Aleksievič. Le donne, invece, sono perfettamente in grado. E spesso anche con un occhio particolare, visto che la guerra, la sua grammatica, il suo funzionamento, ha una logica prettamente maschile. Che siano invece le donne a raccontarla è a mio avviso importante, perché fanno emergere anche tutta la sua follia. Cercando di essere competenti in materia. Non amo le armi, però mi metto lì e studio. E cerco di conoscerle, per quanto siano qualcosa di assolutamente estraneo a me e non ne subisca affatto il fascino”.

Dove fai base, dove ti appoggi? Non sempre ci sono alberghi a disposizione o magari non sono sicuri…

“Per l’Ucraina questo discorso non vale. Non ci sono posti dove non ci siano delle strutture che garantiscano gli standard. Sì, magari c’è il posto più complicato, ma l’Ucraina è molto grande. Parliamo di città moderne, dove la connessione funziona. Chiaro, in situazioni di guerra poi entra in vigore il coprifuoco, è più difficile trovare negozi aperti, più complicato muoversi, cercare rifornimenti di carburante, però stiamo parlando di un Paese europeo, non marginale e arretrato, non di un Paese con logistiche complicate. Tendenzialmente tutti quanti stiamo negli alberghi, difficilmente troverai un giornalista che ti dice che ha dormito su una panchina. Se poi in un posto non c’è un albergo o alberghi sicuri, si va a dormire nelle case private. Ma è il problema minore”.

Hai mai paura? Come vivi e affronti il rischio di essere in prima linea e sempre esposta?

“Ho cercato di fare tesoro delle parole di una giornalista che è forse uno dei modelli che più mi ha ispirato in questi anni, Marie Colvin, americana uccisa in Siria che scriveva per il Sunday Times. Diceva che il coraggio è avere paura. Mi riconosco molto in questa affermazione, perché la paura c’è sempre, non ti abbandona mai. Il problema è come l’affronti. Se riesci a far sì che non prenda il sopravvento. La paura va gestita, va controllata, senza per questo eliminarla. Molto spesso è la guida migliore. Ti fa da scudo e la devi saper ascoltare quando sei esposto così tanto, come lo siamo spesso noi. Certo, vivere in front line, stare sotto i bombardamenti è qualcosa che cambia la percezione della realtà. Il punto non è dimostrare il proprio eroismo, non siamo qui per questo. Siamo qui per raccontare e se il racconto presuppone anche questo lo si fa. Poi c’è anche chi ama l’adrenalina. E’ un fenomeno che viviamo tutti, se però ti fai dominare da quella è un disastro. E diventa anche pericoloso. Una cosa che credo sia importante in questo genere di situazione è non abbassare troppo la soglia di rischio, perché soprattutto dopo tanti mesi che sei sul campo, certe situazioni cominciano a diventare normali, però devi discernere che non è quella la normalità. Credo sia molto importante potersi confrontare continuamente con le persone, con i colleghi, con il proprio desk, perché poi finisce che la cosa che ti frega di più è la solitudine. Se non condividi le emozioni che provi, finisce che ti fai travolgere.  

(nella foto di Vincenzo Circosta, Marta Serafini)

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