di ALBERTO FERRIGOLO

È dalla metà degli anni Settanta che si parla di riforma generale dell’Ordine dei giornalisti. Quanto mai necessaria, in tempi recenti, alla luce delle travolgenti innovazioni tecnologiche, allo sviluppo della Rete, ai nuovi media e ai social. Si sono esercitati giuristi, specialisti, anche giornalisti di valore, in via teorica. Hanno fatto seguito rari e pochi fatti. A tappe, s’è impegnato pure lo stesso Ordine, che ha predisposto le “linee guida per la riforma”, approvate il 16 ottobre 2018, ma che ancora lì giacciono, senza risposta dai legislatori. Però il futuro arriva così veloce, che Ordine e categoria rischiano di rimanere travolti da una rivoluzione, già quasi tsunami.

Di questo Professione Reporter intende occuparsi con interviste, analisi e interventi.

Iniziamo dal colloquio con Francesco Piccinini, per otto anni direttore del sito Fanpage.it – uno dei fenomeni recenti delle webnews- dal 2013 al 19 marzo scorso, quando è passato ad altro incarico all’interno del gruppo editoriale Ciaopeople srl, mediacompany che possiede Fanpage, The Jackal e altri prodotti verticali come Ohga, Cookiest, Kodami, rivolti al mondo della cucina, dello sviluppo sostenibile, degli animali. The Jackal è invece un gruppo di comici e producer di video, sbarcati con la loro prima serie su Netflix, “Generazione 56K”, realizzata da Cattleya, su chi è nato e cresciuto con lo sfarfallio del modem sul comò, tra gli anni Ottanta e Novanta. In tutto, Fanpage fa 4 milioni di contatti al giorno e ha un fatturato di circa 30 milioni di euro con un margine operativo lordo di 4, dovuto interamente ai ricavi della pubblicità. Una cinquantina di redattori, redazione centrale a Napoli, due sedi distaccate a Roma e Milano, una ventina di videoreporter sparsi lungo la dorsale appenninica. Tra le firme editoriali di maggior prestigio e seguito, quelle di Giulio Cavalli, Sandro Ruotolo e Rosaria Capacchione. È il primo sito a sbarcare sui social. 

“La missione del giornalismo? È la ricerca delle notizie. Il problema è che noi abbiamo trasformato il giornalismo dalla ricerca delle notizie all’opinione sulla notizia. Per carità, va benissimo, è legittima l’opinione, ma non cambia la storia della notizia”, dice Piccinini. Ma, se si volesse affrontare davvero il tema della riforma dell’Ordine professionale, sottolinea, “il punto di partenza dovrebbe essere cosa intendiamo per informazione oggi”.

E cosa si deve intendere?

“Sempre più spesso ci sono mezzi e luoghi dove si fa tantissima informazione, ma che non sono nei radar di chi si occupa di deliberare. Media come Will, che sono su Instagram, di cui non c’è assolutamente nessuna contezza da un punto di vista giuridico dentro l’Ordine. Poi, però, ci sono anche dei divulgatori su YouTube che condizionano l’informazione. C’è stata recentemente un’importantissima inchiesta della Bbc, passata completamente in sordina in Italia, nella quale si raccontava che un’agenzia di pierre, finanziata dalla Russia, cercava e pagava degli youtuber per far fare loro video contro i vaccini. Degli youtuber che si occupavano di informazione, che commentavano le notizie”.

Tutto questo per dire?

“Per dire che un’agenzia di pierre non si preoccupa di andare da un giornale tradizionale, sia cartaceo che online, ma si rivolge a degli youtuber per influenzare l’opinione pubblica, e noi come giornalisti con il tesserino in mano non ne parliamo nemmeno, non ci occupiamo di questi fenomeni e non sappiamo neppure di cosa stiamo parlando. Una cosa è sicura: il tema è enorme. E parte da dove sono i luoghi dell’informazione oggi”.

E dove sono oggi i luoghi dell’informazione?

“Non sono più solo nei percorsi tradizionali. Sono su Tik Tok, su YouTube, su Instagram, ma tutto questo mondo non viene preso assolutamente in considerazione. Non si tratta più solo del sito, che è una url, ma parliamo di una galassia di declinazioni che influenzano molto di più, probabilmente dei giornali stessi. Faccio un esempio: ‘Afghanistan, storia di una guerra senza fine’, realizzata da un divulgatore online su YouTube, ha ottenuto 127 mila visualizzazioni. Il sito del Mattino di Napoli non le sfiora neppure. O meglio, forse le fa nel suo insieme, ma qui parliamo su un singolo argomento. Quanto sta influenzando un divulgatore che fa due video sul Medio Oriente? Il primo sul ‘Lato oscuro di Dubai’ ha fatto 1 milione e 700 mila visualizzazioni, mentre ‘La nascita dello Stato di Israele’ un milione. E noi di cosa ci preoccupiamo? Del sito di Fanpage piuttosto che di quello del Messaggero, oppure di questa galassia dell’informazione?”. 

Ho capito, sostieni che c’è un’informazione parcellizzata che fa numeri consistenti, più dei media tradizionali. Come dovrebbe tradurre, accogliere o rappresentare l’Ordine questa realtà così variegata? 

“Parliamo di numeri importantissimi, che influenzano soprattutto le giovani generazioni e noi continuiamo a guardare a 30 mila iscritti all’Ordine dei professionisti? L’Ordine può avere un senso laddove svolga un ruolo normativo di tipo sanzionatorio, ruolo che in Italia è solo una barzelletta. E anche laddove interviene, poi, cambia poco. Perché la persona sanzionata continua a scrivere tranquillamente sui giornali. Allora, se non ha un potere reale sanzionatorio, l’Ordine si deve interrogare sul proprio ruolo. Altro tema: l’affievolimento della differenza tra pubblicisti e professionisti, anche nelle forme contrattuali nell’online. Ormai questa suddivisione non c’è più: se si prende il contatto Anso-Fisc, cioè il Contratto collettivo per la regolamentazione dei rapporti di lavoro giornalistico nelle testate dei periodici di informazione a diffusione locale e nelle testate online prevalentemente locali, non c’è scritto niente sulla suddivisione. Allora che senso ha questa differenza, è solo nominale?”.

Dunque, l’Ordine dovrebbe essere modificato, ma in che direzione? Come, chi modifica, il Parlamento? Con quale legge? 

“L’Ordine dovrebbe essere cambiato completamente. Però la legge sulla stampa è una legge dello Stato italiano, quindi c’è un riferimento normativo certo. C’è un’interazione, un processo osmotico conseguenziale. Però questo processo osmotico io non lo vedrei affatto semplice. Se sei il Quarto potere ti devi comunque relazionare con il primo, il secondo e il terzo. Se però si vuol essere il Quarto potere si deve in qualche modo interagire con gli altri e capire come si devono modificare le norme. Anche con la magistratura si deve interagire, per esempio”.

Il giornalismo nazionale è adeguato? Di quale giornalismo e quali giornalisti avrebbe bisogno una democrazia avanzata?

“Avrebbe bisogno di un insieme di figure che partecipano all’informazione. Faccio un esempio stupido, assurdo, però i cameramen, gli operatori in Italia non sono ancora giornalisti, quando in quasi tutte le televisioni d’Italia ormai vengono mandati a fare i servizi in autonomia. Nei service non sono giornalisti. Eppure in un’epoca video, la scelta di cosa riprendere, cosa mettere in un servizio determina l’informazione. Gli organi di informazione hanno un grande problema, pensano di fare opinione, ma in realtà non la fanno. E i giornalisti, invece di pensare di fare opinione, dovrebbero occuparsi di come dettare l’agenda, dando le notizie. Significa che se arriva l’operatore e riprende la caduta della funivia del Mottarone è quel video che detta l’agenda. Ma davvero abbiamo bisogno delle opinioni oggi? Apri Facebook e si trova l’opinione di chiunque”.

Vuoi sostenere che l’opinione specializzata non orienta più?

“Non ha nessun impatto. Lo dicono i numeri, basta analizzare i dati. Basta prendere dei ‘tools’ che utilizzano tutte le redazioni di giornale e si vede che quasi mai un editoriale è presente tra gli articoli letti in Italia in quel giorno”. 

Qui poni una serie di questioni che in qualche modo s’intrecciano. C’è un’ etica nel giornalismo? È la ricerca della verità? Cosa significa cercare la verità? 

“La missione del giornalismo è la ricerca delle notizie. Il problema è che noi abbiamo trasformato il giornalismo dalla ricerca della notizia all’opinione sulla notizia. Per carità, va benissimo, è legittima l’opinione, ma non cambia la storia della notizia”. 

Questo, però, più sulla carta stampata…

“Ma anche sull’online. Interi portali si basano su video di persone che ti danno il commento della notizia, però il mestiere del giornalista è portare le notizie. Meglio, dovrebbe…”.

E il gioco delle notizie insieme è anche la ricerca della verità?

“Esatto”. 

Si discute anche di allargare la platea ai comunicatori. Non sono due ruoli distinti, quello del giornalista e del comunicatore? Raccontavi all’inizio dei pierre che cercavano youtuber per conto della Russia, ma quelli non sono piuttosto ruoli da influencer?

“Una cosa è certa, il racconto sui vaccini determina molto di più, se fatto in un determinato modo, di qualsiasi lavoro d’informazione. Quel che manca in Italia è l’analisi dei numeri. Prendiamo ad esempio Luca Donadel, che poi s’è scoperto essere vicino ad ambienti legati a Casa Pound: ha fatto un video qualche anno fa sui migranti che ha avuto 6 milioni di visualizzazioni. La metà dell’audience di Sanremo. E su un tema specifico, non su un giornale, che è fatto da un insieme di servizi. Mentre ‘La falsità di Mentana, l’assoluto stato del giornalismo’, sempre di Donadel, di visualizzazioni ne ha raccolte 1 milione e 700 mila. Fa più del Tg di Mentana, Luca Donadel. Mi spiace, ma è gente che sta facendo informazione perché non solo entra direttamente nel dibattito, lo determina. Tanto che i pezzi di Luca Doandel, a suo tempo, furono presi da Salvini e poi rilanciati. Sono numeri difficili da fare per qualsiasi sito di informazione”. 

Vuoi dire che l’Ordine dovrebbe occuparsi anche di questi tipi alla Luca Donadel?

“Dico solo che i giornalisti, l’Ordine, ci sono in questi luoghi o non ci sono? O dibattiamo solo se devono entrare i comunicatori o meno? Per me è marginale. Stiamo parlando di un ecosistema di persone che influenza l’informazione molto di più di quanto non facciano a volte 30 mila giornalisti iscritti all’Ordine messi insieme. E noi ci poniamo il problema dei comunicatori? Io penso invece a chi ha a cuore l’informazione in quanto paradigma democratico”. 

Facciamo prima a dire  che gli organismi di categoria non rappresentano la realtà professionale e informativa per quel che è realmente e non sono adeguati, allora. È così?

“Non sono più adeguati. Perché trent’anni fa i luoghi dell’informazione erano cento giornali di carta stampata e sei o sette Tg. Allora gli strumenti di controllo di cui si disponeva consentivano di avere la rassegna stampa con tutti i giornali, i sette Tg, i Gr radio e il mondo dell’informazione era finito lì. Qui hai dei fenomeni che fanno milioni che nessuno monitora, dei quali non si dibatte, però poi scopriamo che esiste il fenomeno delle fake news. E come se tu lasciassi il palazzo abbandonato per dieci anni e poi lo ritrovi occupato. Ma che ti aspettavi? È fisiologico”. 

La categoria nel suo insieme che tipo di coscienza professionale ha? Dovrebbe premere di più sugli organismi di rappresentanza per ottenere una riforma adeguata?

“La categoria dovrebbe guardarsi allo specchio e pensare che non detiene più il potere e lo scettro dell’informazione e capire come riformarsi. Capire che non esiste più solo lei al mondo. Questa cosa è terribile perché ci sono un sacco di persone non professionalizzate che il mestiere lo fanno. È un fenomeno che possiamo arginare? Assolutamente no, perché ormai esiste. Il punto, semmai, è: come lavoriamo su questo fenomeno? Invece facciamo le classifiche Auditel in cui ci sono tutti i siti di informazione, parliamo di noi stessi, ma non guardiamo la galassia mediatica nel suo insieme”.

Ci vorrebbero degli Stati generali dell’intera categoria? 

“Bisognerebbe prima di tutto coinvolgere negli organi deputati, non semplicemente lo stesso pattern di persone. Uscire dal circolino, mi sembrerebbe veramente il minimo sindacale”.

Una proposta secca per un Ordine dei giornalisti di domani?

“La prima cosa dalla quale partirei è che l’iscrizione all’Albo ogni anno è solo per chi ha un tot di introiti che provengono esclusivamente dal lavoro giornalistico. Come in Francia. Non è che sei giornalista a vita. Già questo sarebbe un primo passaggio. E poi collegarsi con le piattaforme, come già fa YouTube, concordare degli spazi per l’informazione con quei canali e quei luoghi nei quali sono presenti gli operatori dell’informazione. Bisogna lavorare con gli Ott, cioè gli Over the top, le imprese che forniscono attraverso la rete internet servizi e contenuti – soprattutto video –  e applicazioni del tipo “rich media”. Il problema dell’Ordine è che non si siede al tavolo con gli Over the top, non si siede con Facebook, con YouTube a parlare di queste cose e di cos’è il giornalismo oggi”. 

Ti puoi spiegare meglio? Quando dici “concordare degli spazi” che cosa intendi?

“Per esempio se oggi tu ti colleghi a YouTube c’è un fascione nel quale ci sono le notizie del giorno e ci sono solo i giornali dentro. Questa dinamica, che è una dinamica interessante, perché mette in risalto le notizie, andrebbe in qualche modo migliorata e in base anche agli altri social network”.

Ma l’Ordine come potrebbe intervenire?

“La questione dell’accordo con Ott è stata gestita da Fieg, la Federazione degli editori e che l’Ordine dei giornalisti non sia presente è assai discutibile. Così come anche la questione del copyright europeo, è stata trattata ed è in mano tutta alla Fieg, il che è una follia. Cioè gli editori si siedono a parlare e trattare, l’Ordine no”. 

Cioè tu dici, l’Ordine è poco presente nella realtà odierna del giornalismo. Ma non spetta più alla Fnsi, non lo fa già la Federazione della Stampa?

“Poco. La Fnsi non si pone proprio il problema di questi players, l’unica che lo fa è la Fieg. Ma è una follia che trattino solo gli editori perché loro rappresentano, pur legittimamente, soltanto degli interessi economici, mentre qui parliamo di interessi del lettore, che è cosa ben diversa. L’Odg dovrebbe favorire l’accordo con gli Ott, anche perché il tema che l’online faccia più lettori della carta stampata è un dato di fatto”. 

(nella foto, Francesco Piccinini)

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