di ALBERTO FERRIGOLO

Dunque, ora che all’ultimo La Gazzetta del Mezzogiorno è riuscita ad aggiudicarsi un nuovo proprietario e a scongiurare la chiusura, dovrà fare anche i conti con i suoi 133 anni di storia editoriale.

Adesso arriva il momento più difficile, perché il giornale dovrà affrontare una nuova organizzazione del lavoro e mettere mano ai conti e alle spese, ridimensionare considerazione di sé e ambizioni sedimentate negli anni. E smaltire i debiti. Che ne hanno accompagnato la storia. Dalla fondazione. Quando Raffaele Gorjux, il capostipite, decide di costruire a proprie spese il palazzo in stile “eclettico”, barocco e neoclassico, che dominava piazza Roma. Per l’occasione, Gorjux si fa prestare il denaro dall’allora Banca di Bari, che però essendo sull’orlo del fallimento, viene assorbita e comprata dal Banco di Napoli, che sul debito acquisisce l’80% delle quote. L’inaugurazione del palazzo avviene il 28 dicembre 1927 e lì La Gazzetta resta fino al 1974. Poi lo stabile viene demolito, in una notte, nel 1982. 

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Aldo Moro ha due giornali di riferimento: il Giorno, dell’Eni e di Baldacci, e la Gazzetta del Mezzogiorno, giornale che dall’1 novembre 1887 fino al 1924 si chiama Corriere delle Puglie, quindi Gazzetta delle Puglie, fino all’attuale nome, dal 1928. Testata cresciuta all’ombra del potere, La Gazzetta è stata essa stessa un potere nel potere in una ragione, la Puglia (con la Basilicata), che ha sempre avuto bisogno di riferimenti politici forti: fascista durante il Ventennio (“Servire il Duce nei suoi alti disegni”), monarchica con Badoglio, democristiana con Moro, socialista con i ministri Rino Formica e Claudio Signorile, in era craxiana, di nuovo di destra con Pinuccio Tatarella, vicepresidente del Consiglio e ministro di Poste e telecomunicazioni nel primo governo Berlusconi. Fino a una navigazione “a vista” nell’ultimo decennio e più, in un’epoca di progressiva atomizzazione del sistema politico. Ma sempre dalla parte del Palazzo e degli interessi di quella borghesia agraria e mercantile di cui è stata a lungo l’espressione.

fatti non accaduti

Emblema dei poteri forti, la storia della Gazzetta – simile a quella di molti altri quotidiani regionali – è legata al tempo stesso al prestigio popolare e alla sua credibilità: “Lo ha detto la Gazzetta” è stato per lungo tempo il ritornello. Oltre al fatto di essere a lungo l’unico giornale di Bari e Puglia su piazza. Tanto che il suo storico e più longevo direttore (1962-1979), Oronzo Valentini, si poteva permettere di dire: “Quel fatto non è accaduto perché sul mio giornale non c’è”, qualora gli fosse contestato un “buco” in cronaca. Giornale egemone e dall’egemonia incontrastata. Che detta la linea dell’opinione pubblica in Puglia. 

Un quotidiano che ha sempre impedito, scoraggiato e contrastato per diversi decenni qualsiasi tipo di concorrenza editoriale. Anche se è stato sfidato nel primo dopoguerra, ma per il solo arco di un biennio – tra il 1945 e il 1947 – da La Voce della Puglia, quotidiano d’impronta socialcomunista, avventurosa iniziativa politica, editoriale, culturale e umana, voce alternativa che si contrappone brevemente alla espressione degli interessi agrari, d’impronta clerico-fascista, difesi dal giornale barese.   

Quotidiano sempre schierato, ma che al tempo stesso nega agli avversari lo spazio necessario, rappresentando in nodo ecumenico tutti: uomini politici, esponenti della cultura, sindacalisti di vario ordine, grado e colore. “Unico giornale in Italia a non aver chiuso neppure per un giorno alla caduta del fascismo, quando divenne badogliano in quattro e quattr’otto, come se niente fosse avvenuto”, annota Pantalone Sergi in un saggio del 2003 sul giornalismo “antipotere” in loco. Giornale che rimane legato alla Dc, ma pure alla Destra, perché in Puglia la Destra postfascista rimane sempre forte. E Pinuccio Tatarella, politico potente del tacco d’Italia, forte lo è, facendo parte di quel gruppo degli “innovatori” che si liberano (o tentano di farlo) dei retaggi del vecchio fascismo -i mazzieri o “boia chi molla”- professato nell’adiacente Calabria.

il verbale del cln

Dalla direzione di Luigi De Secly, che l’ha guidata traghettandola dal fascismo alla democrazia, la svolta vera e propria della Gazzetta nasce o inizia nel 1961, dapprima con Riccardo Forte, direttore che proviene da un altro “regionale”, Il Gazzettino di Venezia, ma che dura in sella solo un anno. Aldo Moro diventa segretario della Dc nel 1959 e inizia a tessere la tela del centrosinistra e dell’avvicinamento ai socialisti, che poi si concretizza nel ‘62, con la prima astensione di Nenni al Governo Fanfani. Nel 1962 Oronzo Valentini sostituisce Forte, dal quale il futuro direttore è dapprima ingaggiato come editorialista: successione preparata con Bepi Gorjux. Famiglia storica quella dei Gorjux, il padre Raffaele la Gazzetta la fonda e fa costruire il palazzo che l’ha ospitata fino al ’74. Quando Valentini diventa direttore, in Puglia cominciano però a cadere anche le prime giunte Dc-Msi e viene data vita alle prime alleanze di centrosinistra. Oronzo Valentini è molto legato a Moro, che conosce dal ’44 -quando il Comitato di Liberazione si riunisce a Bari- rapporto che si salda ai tempi della Costituente. Ed è uno dei due giornalisti-stenografi che redigono il verbale della due giorni del Cln, con Ciro Buonanno, redattore del Mattino.

Con Valentini La Gazzetta del Mezzogiorno diventa un giornale non di sinistra, ma di più larghe vedute. Che dà spazio a realtà più avanzate, apre ai socialisti Formica e Signorile e via via s‘allarga agli intellettuali comunisti e, durante la campagna referendaria per il divorzio, 1974, dimostra equilibrio. Anche perché Moro, capo del governo, non s’impegna affatto nella campagna elettorale, contribuendo a dare l’ultima spallata a Fanfani. Nei confronti di Fanfani il leader pugliese vince nel ’59 la sua battaglia politica. In quell’occasione, però, il Sud vota contro il divorzio. Eppure Valentini si assume il rischio di andare controtendenza. 

assalto al palazzo

Gli anni corrono veloci. Nel 1977 i fascisti assaltano il palazzo della Gazzetta nel cuore della notte, nel 1978 le Brigate Rosse uccidono Moro e dopo il ritrovamento del corpo la Dc decide di ripensare le alleanze. Dà vita al pentapartito con liberali, repubblicani, socialisti, socialdemocratici, così nel 1979 Valentini viene scaricato dalla sera al mattino, dopo diciassette anni. Dopo aver sostenuto Moro e la sua linea del Compromesso storico, è sostituito da Peppino Giacovazzo, caporedattore storico del giornale, che muove i primi passi come lettore dell’edizione notturna del Tg1.

Terminata l’era Valentini, anche il Banco di Napoli passa la mano. E decide di vendere la testata a imprenditori locali, tra i quali il nome più rilevante è quello di Stefano Romanazzi, proprietario della “Icai”, che commercializza i camion Fiat. Con l’uscita del Banco di Napoli esce di scena anche quel pezzo di Dc che guarda di più a sinistra. Quanto alla stagione Valentini, è quella in cui il giornale fa il pieno di copie, 60-70 mila di media, e quando “la Bari” approda in serie A, il lunedì la Gazzetta tocca le 100 mila. Oggi sono 7-8 mila.

Dalla metà degli anni Novanta inizia la stagione di Mario Ciancio Sanfilippo, l’editore de La Sicilia che tra il 1997 e il 1998 acquisisce la quota di maggioranza de La Gazzetta del Mezzogiorno, che gestisce fino al 6 maggio scorso. In quella data si dice disinteressato a impegnarsi per il suo futuro e dichiara l’intenzione di mettere in liquidazione la società editrice Edisud Spa, uno dei beni che ha recuperato il 24 marzo 2020, dopo che la Corte d’Appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i suoi averi (giornali, società, conti correnti e tv), e lo ha prosciolto dall’accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa”.

signorile e tatarella

Tuttavia, l’egemonia culturale ed informativa della Gazzetta del Mezzogiorno inizia a incrinarsi per davvero con lo sbarco delle edizioni locali di Repubblica e Corriere della Sera, tramite il Corriere del Mezzogiorno, e del Nuovo Quotidiano di Puglia del Gruppo Caltagirone. Questa testata assume la denominazione nel 2001, dopo che nel 1998 il Gruppo Caltagirone acquisisce la proprietà del Quotidiano di Lecce, fondato nel 1979 da Beppe Lopez, che si dimette da la Repubblica. Lo sponsor politico dell’epoca è il socialista Signorile. Il Quotidiano di Lecce è l’apripista dell’innovazione editoriale in terra pugliese con largo anticipo sul corso degli eventi. In quegli anni vedono la luce anche Barisera, free press con il gemello Leccesera, quotidiano del pomeriggio, fautore d’un giornalismo urlato; quindi il semiclandestino Puglia della famiglia Gismondi, e Qui Foggia di Matteo Tatarella, che poi diventa Il Quotidiano di Foggia. Alcuni resistono, altri scompaiono.

Così, a cavallo del millennio che sorge, le nuove testate trasformano la Puglia in un laboratorio di pluralismo. Alla fine del Duemila, La Gazzetta, fino a quel momento padrona del territorio, cerca di parare i colpi, contenere le perdite, mentre la concorrenza vivacizza il panorama e incrina il monopolio, per creare una sorta di “antipotere”. Scalfendo e scardinando le vecchie e sedimentate abitudini di una sonnolenta Gazzetta costretta a cambiamenti repentini per adeguarsi al nuovo panorama e reggere il confronto-scontro. 

A la Repubblica di Bari, infatti, si deve la battaglia per l’abbattimento dell’ecomostro in cemento di Punta Perotti, realizzato dai poteri forti della città. Oltre alla denuncia di diversi episodi di corruzione, che si sono verificati tra Brindisi, Taranto e Foggia.

Ora La Gazzetta passa di mano ad una solida famiglia famiglia della ristorazione, Ladisa di Bari, nell’era in cui i giornali non vanno più di moda.  

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