di MICHELE CONCINA

“Un romanzo è uno specchio che passa per una via maestra e ora riflette al vostro occhio l’azzurro dei cieli, ora il fango dei pantani. E l’uomo che porta lo specchio nella sua gerla sarà da voi accusato di essere immorale! Lo specchio mostra il fango e voi accusate lo specchio! Accusate piuttosto la strada in cui è il pantano, e più ancora l’ispettore stradale che lascia ristagnar l’acqua e il formarsi di pozze”. Nei due secoli (quasi) trascorsi dalla pubblicazione de Il rosso e il nero non è cambiato granché: per molti governanti dalle inclinazioni autoritarie, la pandemia è il fango e i giornali sono lo specchio: l’una dovrebbe avere il buon gusto di non esistere, gli altri di parlarne il meno possibile. Visto che contro il virus possono far poco, se la prendono con chi ne scrive.

Pochi giorni fa Ruth Michaelson, dal 2014 corrispondente del Guardian dal Cairo, è stata sbattuta fuori dal Paese senza complimenti. Aveva reso noti uno studio dell’università di Toronto e un articolo in corso di pubblicazione su Lancet che calcolavano una stima dei casi di coronavirus in Egitto da un minimo di 6 mila a un massimo di 19.310. In quel momento le cifre ufficiali del governo parlavano di tre pazienti in tutto.

Aereo obbligatorio

Immediatamente convocata per un lungo interrogatorio dai servizi segreti, Michaelson è stata privata dell’accredito e accusata di “diffondere il panico”. Il suo giornale, a cui il regime di Abdel Fattah al-Sisi aveva chiesto scuse ufficiali, ha offerto alle autorità egiziane di pubblicare una lettera di replica, senza ottenere risposta. Poco dopo i servizi hanno fatto sapere a Michaelson che se non saliva su un aereo (uno degli ultimi a lasciare il Paese prima della chiusura dei voli) rischiava l’arresto. Con tutto quel che comporta finire nelle mani della polizia egiziana.

Il governo russo, che fa di tutto per minimizzare l’impatto dell’epidemia, usa la nuova “Legge sulla disinformazione” per costringere i media a cancellare servizi e notizie; lo racconta Reporters sans frontières, che raccoglie dati sulle violazioni del diritto all’informazione in tutto il mondo. E’ successo fra gli altri al Magadan Govorit, a Radio Echo Moskvy, a Facebook e al social network russo VKontakte. Allo stesso tempo, il regime di Vladimir Putin ha avviato “un’importante campagna di disinformazione” sul coronavirus, secondo un documento interno dell’Unione Europea del 16 marzo, scoperto dalla Reuters. Sono quasi 80 gli esemplari di fake news diffusi –in cinque lingue, incluso l’italiano- a partire dal 22 gennaio, “allo scopo di aggravare la crisi sanitaria nei Paesi occidentali”. La specialità russa è rilanciare e ampliare le accuse degli iraniani, che senza alcuna prova sostengono che il virus è un’arma biologica elaborata dagli Stati Uniti.

La Cina ha appena espulso 13 giornalisti stranieri, praticamente le redazioni in blocco di New York Times, Washington Post e Wall Street Journal. La mossa è stata presentata come una “rappresaglia” per le limitazioni recentemente decise dal governo Usa nei confronti dei giornalisti cinesi in territorio americano, che sono stati equiparati al personale diplomatico. Ma, a parte l’ovvia sproporzione, è difficile non vedere la connessione con la pandemia esplosa a Wuhan e lo sforzo del regime di mascherare sia l’origine del virus sia i ritardi nell’azione di contenimento. Tanto più che un numero ancora sconosciuto, ma notevole, di freelance cinesi che cercavano di raccontare la crisi in modo indipendente sono scomparsi; tra i nomi emersi, quelli di Chen Qiushi e Fang Bin. Così come è scomparso il commentatore politico Ren Zhiqiang: “Senza i media a raccontare la verità dei fatti per conto della gente, ciò che rimane sono le ferite inferte dal virus alla vita delle persone e la grave malattia del sistema”, aveva osato scrivere. Un altro freelance, Xu Zhangrun, è stato posto agli arresti domiciliari. Ren Wu, un periodico collegato al Quotidiano del popolo, è stato sequestrato quando ha pubblicato un’intervista critica con il capo del dipartimento d’emergenza dell’ospedale centrale di Wuhan.

Amman chiude i giornali

L’Iran, un altro dei Paesi più colpiti, ha cercato fin dall’inizio di minimizzare la diffusione e la gravità dell’epidemia. Sono pochissime le notizie che riescono a trapelare all’esterno. Fra queste, l’arresto verso fine febbraio di circa trenta persone per aver diffuso via Internet notizie che la Repubblica islamica considera allarmistiche. Il 5 marzo è stato arrestato il video-operatore che aveva rivelato un numero di vittime a Qom molto più alto di quello ufficiale. 

Perfino in Congo un reporter televisivo, Tholi Totali Glody, che aveva ingaggiato una moto-taxi per esplorare le strade della sua città, per verificare il rispetto della quarantena appena dichiarata, se l’è vista brutta. E’ stato inseguito dalla polizia che l’ha buttato giù dalla moto, e gli ha rotto una gamba. Episodi simili sono stati registrati in Uganda, Mali, Senegal e Nigeria.

L’Oscar della fantasia –incruenta, se non altro- spetta per ora alle autorità giordane: hanno sospeso la stampa e la diffusione dei giornali cartacei “perché potrebbero contribuire alla diffusione del virus”. L’ultimo arrivato in questo eletto circolo di aspiranti dittatori è l’ungherese Viktor Orban. Le leggi speciali “contro l’epidemia” votate il 30 marzo dal suo compiacente Parlamento, quelle che gli affidano pieni poteri, affibbiano fino a cinque anni di carcere a chi diffonde disinformazione che possa “danneggiare l’azione del governo contro la pandemia”.

(nella foto, Ruth Michaelson, corrispondente del Guardian dal Cairo)

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