L’assassino di una donna non è un “mostro”. La fidanzata non è “sua”. Non ci sono “raptus”, né “follie”. E gli assassini non sembravano “bravi ragazzi”. E non “amavano troppo”. Non si è trattato di un “fulmine a ciel sereno”. E il femminicidio non è stato “l’ennesimo”.
Locuzioni da non scrivere. Luoghi comuni che perpetuano una cultura sbagliata e dannosa. Li hanno evidenziati -dopo la tragedia di Giulia Cecchettin- il Sindacato Cronisti Romani e e il Gruppo Cronisti Lombardi, aderendo alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne del 25 novembre. Le due organizzazioni hanno prodotto un video-decalogo: dieci giornalisti recitano le parole da non usare mai. In linea con il Manifesto di Venezia, varato il 25 novembre 2017 da Comitato Pari Opportunità della Federazione della Stampa, Usigrai, GiULiA Giornaliste e Sindacato giornalisti veneto. Dal 2021 il Manifesto è inserito in parte nel Testo unico dei doveri del giornalista.
Manuela D’Alessandro, Agi, dice: ”Non scrivere mai che è un mostro. E’ un uomo che ha ucciso una donna”. Fabrizio Peronaci, Corriere della Sera e presidente del Sindacato Cronisti Romani dice: “Non scrivere mai la sua fidanzata, la sua ex, sua moglie. Togli l’aggettivo possessivo”. Eleonora Rossi, freelance: “Non scriviamo era possessivo come lo sono tutti a vent’anni”. Fabrizio Cassinelli, Ansa e presidente del Gruppo Cronisti Lombardi: “Non scrivere mai in un raptus, è stato un raptus. Se è stato un raptus lo deciderà il processo”. Barbara Pavarotti, Tg5: “Non scrivere mai folle di rabbia e di gelosia. Non è un folle, è un criminale”. Paolo Tripaldi, Agi: “Non scrivere mai sembrava un bravo ragazzo. Un assassino non va giustificato mai”. Anna Maria Selini, freelance: “Non scrivere mai l’amava troppo, perchè l’amore non uccide”. Giuseppe Spatola, Brescia Oggi: “Non scrivere mai non litigavano, è stato un caso: non sappiamo cosa succede in quattro mura”. Marianna Vazzana, Il Giorno: “Non scrivere mai è stato un fulmine a ciel sereno quando un uomo uccide una donna. Come se alla base ci sia un comportamento di lei”. Emanuele Nuccitelli, Agenzia Dire: “Non scrivere mai l’ennesimo femminicidio: una donna uccisa ogni 3 giorni è un’emergenza assoluta. Da non banalizzare”.
I due presidenti Fabrizio Peronaci e Fabrizio Cassinelli ritengono che “un linguaggio rispettoso e consapevole, che faccia piazza pulita di luoghi comuni, pregiudizi e stereotipi maschilisti e patriarcali, può diventare un fondamentale strumento di crescita civile e dare un contributo alla battaglia contro i femminicidi”.
Il decalogo contiene le espressioni usate con frequenza da stampa, radio e tv, che possono fornire alibi o indiretta giustificazione all’autore di un femminicidio. “In preda a un raptus” è una frase che esclude la premeditazione. L'”amore criminale” non esiste perché chi uccide non ama. Espressioni come “delitto passionale” e “accecato dalla gelosia” giustificano il crimine sul piano sentimentale. Le qualificazioni della vittima (“estroversa”, “vivace”) e la descrizione delle attività precedenti l’evento (“aveva bevuto”, “passeggiava da sola”) sono spesso utilizzate dalla difesa a fini processuali.
Anche il Manifesto di Venezia indicava dieci punti prioritari, allargando il discorso oltre il linguaggio:
1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori;
2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate;
3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale;
4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom;
5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale;
6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi subisce e a chi esercita la violenza;
7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere;
8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno;
9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne;
10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare:
a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”;
d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.
e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona.
(nella foto, Anna Maria Selini, una delle giornaliste del video-decalogo)