di STEFANO BRUSADELLI

Il mitico cronista parlamentare Guido Quaranta, all’inizio di ogni legislatura, era solito adottare un pugno di neo deputati e senatori ( i quali si prestavano con entusiasmo) facendone i suoi confidenti. Quasi tutti, a forza di essere citati nei suoi pezzi, finirono col conquistarsi un posto al sole. L’ascesa di Ciriaco De Mita non fu propiziata solo dalle tessere (altri democristiani campani ne avevano più di lui), ma anche dai mitici “ragionamenti“ che poi valorizzavano nei loro articoli i notisti insieme ai quali amava percorrere sottobraccio il Transatlantico. E se Giovanni Spadolini assunse un peso ben superiore al cinque per cento che costituì il massimo bottino elettorale del suo Pri, fu soprattutto grazie alla disponibilità con la quale non si negava mai a taccuini e telecamere.

Questi ricordi affiorano nella mia memoria dinanzi alla crescente idiosincrasia che il nuovo potere politico mostra nei confronti della stampa; o, per essere più precisi, nei confronti di ogni contatto “non protetto“ con i giornalisti.

twitter, instagram, tiktok

Se chi fa politica vuol comunicare qualcosa, oramai, lo fa quasi soltanto utilizzando i social. E magari le dirette Instagram, molto “à la page“. Di contro, le conferenze stampa sono sempre più rare. Le dichiarazioni “in strada“ (inevitabili almeno finché non si limiterà il nostro diritto di circolazione) si riducono a poche battute, spesso pronunciate con un tono infastidito. Le interviste appaiono sempre meno interessanti; il che non deve stupire visto che le vere novità si riservano a Twitter, Instagram, TikTok. I retroscena sono sempre più rari, e insignificanti. Una nobile specializzazione della nostra professione, quella del giornalismo parlamentare, rischia di ridursi al mero presidio dei social; e quindi diventa teoricamente praticabile anche da una redazione centrale.

Insomma, un triste panorama, completato dagli obbrobriosi “pastoni“ dei telegiornali, dove il personaggio di turno, parlando più in fretta possibile (e si intuisce che per rispettare i pochi secondi di spettanza la dichiarazione è stata provata e riprovata col cronometro in mano), snocciola una serie di banalità, però sempre presentate come irrefutabili.

il manico del coltello

Da tutto questo, chi detiene il potere pensa di trarre un vantaggio.

L’idea corrente è che evitare quanto più è possibile i giornalisti e ricorrere ad una comunicazione non mediata consenta di controllare il proverbiale manico del coltello, scongiurando sia situazioni sgradite sia il rischio di incomprensioni e distorsioni. Inoltre si ritiene che la sinteticità dei social permetta di “bucare“ meglio i media, e di imprimere più efficacemente i messaggi nella mente del destinatario.

Giusto; ma fino a un certo punto. Se questo nuovo modo di agire non offre un buon servizio per il cittadino (e questo sembra assodato), siamo sicuri che rappresenti almeno un vero vantaggio per il politico; o almeno per chi ambisca a costruirsi un minimo di spessore e di longevità nel ruolo?

ostacolo grave

A me pare di no. Credo anzi che l’ossessione per i social e per la comunicazione unidirezionale costituisca un grave ostacolo non solo alla costruzione di una politica di qualità, ma anche all’emergere di leadership di qualità. Per la ragione che l’uso della comunicazione elettronica, per la sua stessa natura, produce contenuti poveri, generici, elusivi. Destinati a diventare presto ripetitivi. E impedisce che emerga una qualsiasi visione strategica, perché la necessità di economizzare le parole sconsiglia la complessità e favorisce le semplificazioni.

Insomma, se per sentirsi più sicuri governanti e legislatori rinunciano al confronto/scontro con i giornalisti, temo che il danno maggiore non sia per i secondi, ma per i primi.

Con ciò non voglio dire che bisognerebbe rinunciare ai social e ai follower. Oggi questo suonerebbe irrealistico. Sebbene venga da chiedersi quando mai le scelte più felici della storia italiana (penso alla svolta togliattiana di Salerno, all’apertura della Dc alla stagione di centro-sinistra o alla politica dei redditi di Ciampi) sarebbero state possibili se i leader d’allora fossero andati dietro ai like.

controllare le parole

Sarebbe però opportuno riflettere un po’ più a fondo sulla funzione anche maieutica che un (bravo) giornalista può esercitare su chi fa il mestiere della politica. Il confronto fa emergere le debolezze e le contraddizioni di una posizione. Affina la capacità di scegliere e controllare le parole perché ognuna di esse, una volta pronunciata, non potrà essere cancellata con il tasto “delete”. Allena la capacità di pensare rapidamente (altro che le ponderazioni consentite dallo scrivere). Permette di capire che percezione si abbia davvero della propria figura.

Soprattutto, consente di far emergere uno spessore, una visione, un disegno a lungo termine; cioè esattamente quel che distingue il leader dal mestierante. E qui (torno all’inizio di questo intervento) non posso che ricordare quanti parlamentari e quanti personaggi di governo siano cresciuti nella considerazione generale anche grazie alla simpatia e all’ammirazione di noi cronisti, sempre disposti a dare il giusto rilievo a chi ci stimolava, ci stupiva, ci forniva idee di valore.

maestri di una volta

Non credo sia un caso se tutti i grandi leader del passato fossero maestri nell’arte di affrontare i giornalisti. E anche i meno loquaci (penso a Craxi, Berlinguer, Andreotti, Forlani), non mancavano di intrattenere fruttuosi rapporti con alcuni di noi.

Invece i politici di oggi, chiusi nel loro confortevole universo elettronico, inesauribili dispensatori di brevi e apodittiche banalità diffuse senza contraddittorio, a me fanno pensare ai pugili che continuano ad allenarsi in palestra, tirando pugni allo specchio; e che evitando per quanto possono di incontrare avversari in carne ed ossa, difficilmente diventeranno campioni.

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