di CHIARA VENUTO

Oggi i giornalisti più coraggiosi sono “leoni da tastiera”. Di solito si chiamano così quelli che criticano aspramente soltanto davanti a uno schermo, ma nella vita reale non si permetterebbero di farlo; in questo caso non è esattamente così. I reporter di cui parliamo  qualcuno li definirebbe “nerd”, appassionati di tecnologie e strumenti molto tecnici, un po’ di nicchia, ma nella nostra professione possono garantire una marcia in più.

Lo dimostra l’abilità con cui le redazioni del Washington Post e del New York Times in questi mesi hanno lavorato – e continuano a farlo – per fare fact-checking (verificare la veridicità) di immagini e video provenienti dalla guerra in Ucraina. Esistono interi gruppi di giornalisti che si dedicano a questo, a dimostrazione della volontà di alcuni editori di investire in un giornalismo di qualità anche attraverso strumenti più tecnici.

dettagli nei video

Chi si occupa di questo tipo di indagini utilizza più metodi. Anzitutto è in grado di analizzare i dati geografici presenti sui file che girano online. Tanta attenzione è poi riservata ai dettagli presenti nei video, che – secondo quanto dichiarano gli stessi giornalisti – vengono visti e rivisti “pixel per pixel”. Ma uno degli strumenti più interessanti sono le immagini satellitari, ormai sempre più accessibili e dettagliate. Così i giornalisti del Washington Post hanno capito la posizione degli almeno 17 corpi ritrovati esattamente un anno fa a Nikopolsky Avenue, a Mariupol, paragonando i video che circolavano in rete con le foto dall’alto. Nello stesso periodo, il New York Times aveva dimostrato nello stesso modo che il drammatico massacro di civili a Bucha era avvenuto prima che le truppe russe se ne andassero (nonostante le autorità del Cremlino avessero negato la propria responsabilità). Una certezza che ha fatto capire definitivamente anche ai più scettici la gravità di questa guerra.

mappatura geografica

Le immagini da satellite sono al centro di un progetto di giornalismo investigativo della giornalista brasiliana Fernanda Wenzel, che ha lavorato per diverse testate, da The Intercept a CNN e BBC e lo ha raccontato durante il Festival del Giornalismo di quest’anno. Grazie a un programma per la mappatura geografica, nel quale ha inserito i dati sui territori di proprietà federale all’interno della foresta amazzonica, è riuscita a capire quali erano le persone che grazie a un vuoto legale stavano deforestando alcune aree, indisturbati. 

È un processo noto anche come “land grabbing”, “accaparramento di terre”. Secondo questo sistema malato, “Dono é quem desmata”, il proprietario è quello che disbosca. Questa citazione è il titolo del libro scritto da Mauricio Torres ed altri sul tema, ed è la frase di un grileiro” di Novo Progresso, che voleva giustificare il proprio diritto sulle terre da lui disboscate. “Come termiti che si fanno strada dentro la foresta”, scrive Wenzel, queste persone riescono a distruggere interi pezzi del più grande polmone del mondo. Grazie al suo genio tecnico e creativo allo stesso tempo, Fernanda Wenzel ha ottenuto una fellowship dal Rainforest Journalism Fund del Pulitzer Center. 

missione in incognito

Wenzel, dopo essersi assicurata di non aver preso un abbaglio, ha verificato tutte le proprie osservazioni direttamente sul campo. “Non abbiamo rivelato di essere giornalisti – ha raccontato durante il festival – perché in questi paesi dell’Amazzonia appena arrivi tutti sanno che c’è un forestiero. Ed è meglio che certi criminali non sappiano chi sei”. Una vera e propria missione in incognito, che la giornalista ha svolto in compagnia di un fotoreporter: “Meglio non essere mai da soli”, ha aggiunto. Dopo essere tornata con foto e video di quello che stava succedendo (e anche qualche racconto di chi vive in quell’area), ha finalmente contattato – prove in mano – i criminali di cui si era occupata. Com’è andata? “Non sono stati minacciosi, ma non è nemmeno stata una bella conversazione”, ha spiegato.

Ci vuole del fegato, a fare giornalismo d’inchiesta, anche quando si è dietro un computer buona parte del tempo. È la rivincita dei nerd che, grazie alle proprie competenze, riescono a districarsi nell’enorme mole di dati su internet. Una cosa non da tutti, ma che si può imparare con un po’ di formazione. Perché in Italia non è stato ancora possibile? Ci sono sperimentazioni interessanti quando si parla di “data journalism”, ma è difficile andare oltre qualche statistica e infografica. Anche l’impegno di Slow News, che negli ultimi anni ha creato spazi sperimentali come quello per cercare parole chiave nei programmi dei partiti per le elezioni politiche 2022, non è mai andato oltre un determinato limite. Insomma, in Italia nessuna immagine satellitare etichettata e studiata direttamente dai giornalisti, come quella fatta da Krym Realii e che mostra non solo che ci sono 223 basi militari russe in Crimea, ma anche dove si trovano esattamente (come dire: “Caro Putin, sappiamo dove sei”). Al massimo, le mappe già disponibili e pre-analizzate degli studi sulla siccità, che troviamo pubblicate quando c’è qualche caso preoccupante.

Si può fare di più e meglio. L’Ordine dei Giornalisti si sta muovendo e ha creato un corso dal nome “I dati satellitari nel giornalismo, strumenti utili ed esempi pratici” per il triennio 2023-2025. Si deve andare oltre la nozione di un giornalismo che, anche se fa uso di dati, è soltanto per riportare analisi di altri istituti senza mai fare un passaggio successivo, una riflessione. 

(nella foto, Fernanda Wenzel)

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