“Ci cercavano casa per casa, bussavano a ogni porta per trovare gli attivisti. Io mi nascondevo con le mie figlie, spostandomi continuamente, grazie a una rete di contatti che dava l’allarme ogni giorno sugli spostamenti dei talebani”. Razia Ehsani Sadat  racconta i suoi ultimi dieci mesi in Afghanistan. “Un inferno, abbiamo bisogno di aiuto”. Razia è una  giornalista, lavorava in una tv locale, Tamadon tv, i talebani le hanno ucciso un fratello e un cognato. È hazara, fa parte cioè della minoranza etnica e religiosa (musulmani sciiti) perseguitata dai talebani. È da sempre in prima linea per i diritti delle donne che i talebani hanno azzerato. L’unica via di salvezza era la fuga all’estero, il miraggio di un passaporto, che ha infine ottenuto dopo estenuanti e rischiosi tentativi, vendendo tutto quel che possedeva. 

Razia è una dei 70 profughi arrivati in Italia grazie alla rete umanitaria tessuta da Maria Grazia Mazzola, inviata del Tg1, che ha raccolto l’appello del direttivo dell’Afghanistan Women’s Political Participation Network, attiviste per i diritti umani. Mazzola ha messo in piedi varie accoglienze: i Salesiani per il Sociale, le Chiese Protestanti, la coop Una città non basta, insieme all’Unione Donne in Italia, la onlus “Federico nel cuore” creata dalla madre di una vittima di figlicidio, il Gruppo Abele di don Ciotti. Un  ruolo importante hanno avuto le cure del Servizio Sanitario Nazionale e dell’ospedale Bambino Gesù. “Non siamo una Ong – spiega Maria Grazia Mazzola – ma una Rete per i più vulnerabili. Non si tratta di fare la carità, ma di ristabilire diritti allo studio, alla cure, al lavoro”. La sfida ora è quella dell’integrazione dei profughi. Il primo passaggio sarà il riconoscimento dei titoli di studio, tra loro ci sono ingegneri, programmatori, ostetriche. 

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