di ANNA LANGONE

Sarà pure vero che la Generazione Z si sta allontanando dai social, ma questo non indebolisce la forza dei nuovi media a discapito di quelli tradizionali. Non soltanto nell’erodere, secondo dopo secondo, gli spazi delle notizie prima monopolio della carta stampata e delle Agenzie, nel rubare la scena con gli influencer famosi che si fanno ascoltare più degli editorialisti, ma su un terreno che appartiene alla storia del giornalismo: i necrologi. 

Le lapidi stampate nero su bianco, che solo due anni fa in decine di pagine dei  giornali davano corpo all’assurdità della pandemia come e più dei feretri portati via sui camion, stanno cedendo il passo agli annunci su Facebook & Co. Comunicazioni  arricchite, si fa per dire, da quei ricordi, dettagli, frammenti del caro estinto che il necrologio non compendia, frasi spesso rubate a poesie e canzoni, a comporre un linguaggio del dolore inusitato. Quasi a voler esorcizzare la morte, a poterla trasformare in un momento della vita e non più nella sua fine. 

Sarebbe scontato il riferimento a quei profili Fb del defunto che genitori e compagni inconsolabili tengono attivi anche ad anni di distanza dal lutto, aggiornandoli con i compleanni ed altri anniversari dell’amato. L’annuncio funebre social è altro, è un mettere anche la perdita più straziante sul palcoscenico che ospita ormai di tutto, per assicurarsi quel pezzo di condivisione cui non si può rinunciare: perché fa stare meglio? Perché lo fanno tutti? Oppure aiuta a sentirsi meno soli? Saperlo. 

Non è però informazione: l’ufficialità sono i manifesti e, meno che in passato, i necrologi sui quotidiani, una lettura che ha catturato nei decenni intere generazioni, intrigate, sì, dal poter ricostruire collocazione sociale, intrecci familiari, amicizie dello scomparso con le poche ponderate righe collocate tra una croce e una foto. 

Nei giornali americani più famosi, New York Times in testa, tanti cronisti hanno costruito fama e potere su quegli articoli chiamati i pre-morti, i nostri “coccodrilli”, le biografie di personaggi popolari in età avanzata e anche no, custodite nelle memorie di molti Pc di redazione, in attesa di essere pubblicate. 

Tutto questo, compreso il necrologio utilizzato da Antonio Tabucchi come metafora della trasformazione dell’imbelle Pereira nel coraggioso giornalista che denuncia le atrocità di Salazar in Portogallo, finirà per essere resettato, lasciando ai posteri la memoria di chi non c’è più, affidata allo stesso mezzo sul quale si annota la scomparsa di un animale domestico, la partenza per un viaggio, un trasloco. Una fotografia, digitale ovvio, di ciò che siamo diventati. Eppure sapevamo che internet siamo noi, ma abbiamo permesso che i social cambiassero ciò che conta davvero, dalla morte alla verità, soppiantata da gossip, grandi e piccoli fratelli, fatuità rispetto alle quali la panna montata della stampa è da Premio Pulitzer. 

Forse non serve dirlo, ma il trapasso al tempo dei social non avrebbe mai ispirato l’Antologia di Spoon River. 

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