di ALBERTO FERRIGOLO

“Fare informazione dopo oltre cinque mesi e mezzo dall’inizio del conflitto è molto più complicato che in principio. Oggi l’attenzione è molto scemata, l’attenzione che i nostri media danno in generale nel mondo occidentale, certamente in Italia, è molto diminuita, a causa della stanchezza legata alla storia che si ripete, che non è più una novità, a causa dell’estate, per cui un tema pesante come la guerra non si confà alle spiagge. Fammi usare questo termine un po’ cinico, ma è così. E poi comunque anche a causa delle elezioni del 25 settembre, tema tutto italiano. Anche se, bisogna aggiungere, a differenza di altri conflitti, questo ucraino immette nel dibattito politico nazionale elementi di politica estera importanti. Anche il mio giornale ci tiene ad averci qua. E io ho deciso di rimanerci tutto agosto”.

Milanese classe 1957, Lorenzo Cremonesi è inviato del Corriere della Sera di lungo corso. Da oltre 40 anni è presente sui principali teatri. Prima corrispondente da Gerusalemme, dal 1991 è stato più volte in Iraq, poi in Afghanistan, India, Pakistan, Siria, Libia, dal 24 febbraio è in Ucraina. Nel suo ultimo libro, “Guerra infinita”, uscito per Solferino, 600 pagine, dieci anni di preparazione, lega in un unico filo rosso i principali conflitti degli ultimi quarant’anni, dal Medio Oriente all’Ucraina. Dice: “Noi europei, specie noi italiani, non siamo più preparati a pensare in termini bellici, in termini militari. Siamo estranei. Non sono guerrafondaio, ho militato nella sinistra extraparlamentare, ma se si è estranei la guerra la si subisce. Pensare di poterne fare a meno è fallimentare, delusorio, alla fine perdente. Difendere i valori, la democrazia, la libertà di stampa significa anche essere pronti a usare le armi. Ma per noi questa cosa è inconcepibile”.

Qual è stato il momento più duro, di maggior difficoltà in questi oltre cinque mesi, dal punto di vista professionale? In principio le vostre cronache, specie quelle televisive, comprese le tue per Corriere.tv, sembravano tutte un po’ improvvisate, disorientate, incerte, spaurite. Non è così?

“All’inizio c’era però una grandissima attenzione, e per un giornalista era assolutamente gratificante lavorare in questo contesto. Ma voglio fare una premessa: credo che per noi giornalisti occidentali questa sia una guerra a cinque stelle”.

In che senso, spiegati.

“Che sia una delle guerre più comode e più facili che abbiamo mai fatto, che almeno io ho fatto”.

Addirittura? Ma da che punto di vista? 

“Rispetto ai pericoli e alle difficoltà, per esempio dell’Iraq 2003-2004, e non tanto durante la guerra, soprattutto dopo, con il terrorismo. E non paragonabile all’Afghanistan e alla Siria, che era pericolosissima. L’Iraq è stata comunque la guerra più pericolosa, terrificante. Ci son stato cinque anni. Tu me lo chiedi dal punto di vista del giornalista occidentale, no? Ecco, è una guerra a cinque stelle perché nessuno vuol tagliarmi la testa, nessuno mi dà la caccia, dove l’elemento criminale, che c’è sempre in zona di guerra, qui è molto basso. Non ho sentito di nessun reporter assaltato per esser derubato del portafoglio o del computer. Non c’è nessuno che ci sequestra per tagliarci la gola o per fare video con la nostra testa mozzata”.

Però anche qui di giornalisti ne sono morti, e non pochi.

“Nella guerra è normale. In guerra ci si fa male, ma io parlo di logistica. Qui non c’è una popolazione ostile, c’è una popolazione normale, dove c’è sempre qualcuno che alla fine parla inglese, francese, tedesco, le lingue europee. C’è una popolazione che nella sostanza ti vuole bene. Che ci vede come alleati, non nemici. Si mangia bene, si beve, ci sono condizioni di vita occidentali. Certo, poi se uno è sfortunato arriva la bomba e muore. È nella dinamica della guerra. Che è un rischio. Si può rimanere uccisi. Che è persino il rischio minore, il peggiore è perdere le gambe, gli occhi, esser feriti gravi. Qui le condizioni di vita e lavoro sono tra le migliori che abbia mai visto in un conflitto. Dove davanti ai morti di Bucha, i famosi morti di Bucha, facevo la foto, avevo il 4G, e la mandavo in tempo reale. Quando mai? Non esiste. Due giorni fa ero a Kherson, al fronte, facevo la foto e potevo parlare col mio giornale e mandare foto e video dal fronte, scherziamo? Lì di linea ce n’era un po’ meno, ma parliamo di 2 o 3G. Sono sempre connesso. Mi hai chiamato, stiamo parlando e sono a meno di 15 km dalle linee del fronte e a 45, 50 dalla centrale nucleare di Zaporizhzhia”. 

Torniamo all’inizio del conflitto.

“L’inizio è stato più difficile. Sono arrivato e non sapevo come raggiungere Kiev. Ci sono arrivato sotto le bombe, era il momento in cui i russi stavano chiudendo l’accerchiamento, quando hanno provato a prendere la capitale. Lì sì ho rischiato la vita, perché sono entrato di notte con i bombardamenti russi sulla strada principale da Kiev, quando i russi hanno provato – dopo il 24, 25 e il 26 febbraio – a chiudere il cerchio intorno alla città. C’erano i morti per strada, le macchine colpite, le biciclette a terra, è stato molto difficile. C’era l’idea che i russi avrebbero occupato. Ma c’è una cosa che bisogna capire: fino al giorno prima dell’attacco – questo il problema del giornalismo occidentale, europeo e italiano, in particolare – si era convinti che Putin non lo avrebbe fatto”. 

Perché questa convinzione?

“Un pregiudizio. Si pensava Putin fosse tutto parole, uno sbruffone, e gli americani guerrafondai che non capiscono un tubo. Che, al massimo, ci sarebbe stata qualche operazione limitata nel Donbass per completare le operazioni del 2014. Questa era l’idea prevalente, che Putin non avrebbe mai attaccato”.

Previsioni che si sono rivelate sbagliate, perché? 

Un grande errore con cui mi sono scontrato. Il pregiudizio c’era anche tra noi giornalisti. Si è passati da un estremo all’altro: Putin non attacca, gli americani sbagliano, noi siamo più furbi, si sta negoziando. Tutto errato. Poi c’era un’altra questione: la propaganda russa. Non dimentichiamo che fino a due giorni prima del 24 febbraio Putin diceva che i russi avrebbero fatto un’operazione limitata in Bielorussia, solo esercitazioni, che gli americani esageravano, che loro non volevano attaccare. S’è creduto alla propaganda di Putin”.

Un diversivo, poi cos’è accaduto? 

 “Nei nostri media, nell’opinione pubblica, c’era l’idea che i russi avrebbero vinto tutto in poche ore”.

Ma in prima linea come ci sei arrivato?

“Quando finalmente sono arrivato al fronte, dopo che sono riuscito a organizzarmi, comprata l’acqua, trovato un posto da dormire, uno stringer, non c’erano più le macchine. È giusta la tua osservazione sulle nostre prime corrispondenze spaesate. Ma ho dovuto organizzarmi nel bel mezzo della guerra, un vero casino. Era già tutto in emergenza, la gente scappava, non trovavi nessuno, non c’era benzina. Lì mi sono reso conto che i russi avevano enormi difficoltà. Non riuscivano ad avanzare, o meglio, hanno provato, ma erano stati battuti clamorosamente. Era fine febbraio e con il mio giornale insistevo di scrivere un pezzo su questo tema: ‘E se Putin dovesse perdere…?’. Ma la risposta era: ‘No, non è possibile’. Invece era così. Putin questa guerra l’ha persa. Anche se per caso domani dovesse prendere Kiev, in questa guerra ha dimostrato la sua debolezza non la sua forza”.

Fin qui hai parlato di difficoltà e vantaggi di questo lavoro, ma dal punto di vista dell’informazione quali sono gli aspetti critici e meno critici, anche rispetto alle altre guerre? C’è una specificità nell’informazione?

“Prjma di tutto non la vedo diversa da altre guerre, E, come sempre in una guerra, vedo la propaganda trionfare. È normale, dall’una e dall’altra parte. La difficoltà per un reporter è che deve cercare di districarsi e capire, fare la tara, alla propaganda delle due parti. Valeva per l’Iraq, l’Afghanistan, in guerra tutti mentono. Quando si dice che in guerra la verità è la prima vittima è banale ma vero. La specificità di questa guerra è che è una guerra europea, fatta da persone che si comportano in modo assolutamente europeo, che vogliono stare in Europa, mentre dall’altra parte c’è una potenza che comunque è ai confini dell’Europa e che ha una parte europea. Una guerra che tocca le nostre città, visti anche gli effetti del gas”.

Cosa cerchi in questo conflitto? Racconti storie, stai sulla notizia, ipotizzi scenari, fai una copertura a 360°. Come organizzi il lavoro? Come scegli cosa scrivere? Oppure è la guerra che fa l’agenda?

“In genere mi alzo molto presto. Guardo i giornali, in prevalenza stranieri, guardo molto il New York Times, gli anglosassoni, i francesi, i siti ucraini. Molto di quello che gli ucraini dicono e fanno è anche tradotto. Così alle 8-8.30 locali – massimo le 9 – le 7.30 italiane – ho un quadro della storia del giorno. Adesso son qui e sto seguendo la centrale nucleare, ma anche il fronte meridionale. Fra un po’ mi recherò su quello orientale, dove sono stato un mese intero a giugno, a Kramatorsk. In una guerra c’è anche l’aspetto umano, quello militare, che sto seguendo molto anche per mia formazione, specificità, per capire le dinamiche, vedere come sta cambiando la situazione con l’arrivo delle armi americane. Ma mi è stato chiesto anche di stare sulla storia di Mariupol. Ogni giorno volevano storie di profughi, storie umane: dove avevano vissuto, mangiato. È stata una delle cose più ripetitive, più richieste dal giornale, ma anche tra le più seguite dai lettori. Quindi avevano ragione al giornale: stai sui profughi, ripetevano. Questo è giornalismo a 360°”.

Come ti muovi? Segui l’esercito, fai da solo, sei in gruppo con colleghi di altre testate, usi i fixer? 

“Sto sempre da solo. Mai in gruppo. Detesto i gruppi, gli autobus. Certo, se poi bisogna farlo e non si può fare in altro modo seguo le regole. Ho un fixer, è un amico. Condividiamo tutto. La mia regola, fin quando è possibile, è stare soli. Ognuno ha le sue storie”.

Logisticamente dove fai base, dove scrivi e t’appoggi?

“Preferisco le case private. Dov’è possibile affittiamo, anche per pochi giorni. A Krematorsk non ero in albergo ma dentro case, dove sono ora vivo in una casa. A Odessa, dove pensavo di stare solo pochi giorni, mi sono poi trovato una casa, che comporta un contratto, un affitto, internet. La casa, specie in zona di guerra o guerriglia, ti da subito la misura di come vive la gente, dove mangia, quale rifugio aereo frequenta. Già il palazzo, la scala per andare al tuo appartamento è una storia, incontri la vecchietta del piano di sopra, i bambini del piano di sotto, fai amicizia, giochi col loro cane, ci parli e capisci chi sono, dove vanno, cosa fanno. Condividi le paure quando la notte senti le bombe, quando esci e non c’è l’acqua. L’altro giorno ci hanno tolto l’acqua e allora tutti a chiedere dove si doveva andare con i secchi. È una storia. La guerra poi, come tutto, è anche fatta di piccole quotidianità. Avere una casa è stare in un contesto, farne parte. In zone di guerra l’albergo è pure un target. Per esempio, in Iraq dopo la guerra eravamo degli obiettivi, cercavano di farci la pelle, quindi l’albergo non era adatto. Ma a Kabul era fondamentale stare in un hotel, non nelle case, nelle case non c’era linea telefonica, mentre nei due o tre alberghi funzionanti c’era tutto. Per un po’ sono stato a casa d’un amico, ma la notte non potevo lavorare perché non c’era mai l’elettricità, la linea telefonica assente. Non siamo turisti, fare l’inviato di guerra non significa solo esserci. Esserci è importante, ma poi bisogna anche poter andare, se no è inutile. Siamo qui per un lavoro. A fine giornata, spesso anche durante, devi trasmettere e se non lo puoi fare allora è inutile pure esserci. Meglio stare al mare”.

Hai mai paura?

“Sempre, bisogna aver paura, è fondamentale. Guai non averla. Rivendico la legittimità della paura, non il terrore. Quanti colleghi sono scappati da Kiev? Era una città di 4 milioni di abitanti, ne sono rimasti due. Ma prima che uccidano te ce ne vuole… In guerra ci sono sempre spazi di normalità. E prima che i russi riuscissero a prendere Kherson era difficile, complicato, pericoloso, ma la fuga irrazionale, quella no. Ecco perché non sto in gruppo, perché ci sono le isterie collettive. Le isterie dei giornalisti, poi, si alimentano di storie pazzesche”. 

Non sei mai stanco di esser sempre in prima linea?     

“Sì, spesso. Ora stavo benissimo a Odessa e mi è stato difficile venir via per la crisi della centrale. Per il mio carattere mi dà equilibrio fare ginnastica, camminare, nuotare e uno dei drammi di questi quattro mesi è che non ho davvero fatto niente. Niente. Ieri abbiamo fatto tredici ore e mezza d’auto, partiti alle 5. Ora me ne vado a piedi nei campi profughi, voglio parlare con la gente per vedere cosa pensa del referendum russo, e ci vado proprio per camminare, muovermi. Giorni fa a Odessa volevo andare a parlare in due tre chiese ortodosse e raccogliere la reazione del clero ucraino sull’eventualità della visita del Papa di cui si parla. Ci ho messo sei ore, ho camminato. Quando cammini vedi la strada, è importante. A Beirut durante la guerra civile camminavo tantissimo, parlo degli anni ’90. Ore e ore. Era un bel modo per capire i quartieri. A Bagdad non era possibile, troppo pericoloso. Penso che la geografia della mia camminata sia la geografia della guerra”.

Cosa ti spinge a vivere al fronte?

“Penso che la guerra sia la forma più appassionante di giornalismo, perché in un conflitto l’uomo è nudo. Siccome mette in gioco tutto, la sua vita, la sua famiglia, i soldi, la pensione, la casa, i suoi averi, è l’uomo più autentico. Il conflitto estremizza tutte le passioni degli uomini, nel bene e nel male. La cattiveria come la generosità, il buon cuore. Quindi è interessante, noi siamo dei narratori del presente. Entro in un conflitto anche riottoso, sono pigro, vorrei far altro, vorrei essere in montagna o stare a casa mia, vedere mia moglie, dopo di che entri e t’innamori. Nel senso che a un certo punto a casa stai male. Voglio ripartire. Non mollo l’osso”. 

Pregi, difetti, omissioni dell’informazione sull’Ucraina.

“Ho grande ammirazione dei giornalisti che cambiano idea. Avere pregiudizi è legittimo, umano. Se domani mi dicono vai a seguire lo scontro su Taiwan, su cui ho idee che sono pregiudizi, che derivano dalla mia cultura, dal mondo in cui sono, dalle fonti da cui apprendo le cose, dalla mia forma mentis, ci vado. Ma detesto quelli che quando arrivano su un posto non cambiano idea sulla base delle cose che vedono, sentono, vengono a conoscere. Ma è doveroso, stai facendo il tuo mestiere. Penso che troppo spesso il nostro giornalismo, europeo e italiano, sia ideologico. Ci sono persone che t’aspetti cosa scriveranno. Non va bene, vuol dire che rimangono ferme sulla loro idea, la loro posizione. E questa guerra, siccome è europea, ci coinvolge come tali e ci vede già schierati. Questo è un problema”. 

(nella foto, Lorenzo Cremonesi) 

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