di LUCIANA BORSATTI

La ripresa del potere in Afghanistan da parte dei talebani, tornati a Kabul il 15 agosto 2021, ha avuto un effetto devastante sulla dinamica scena dei media che si era sviluppata nei 20 anni precedenti, quelli della Repubblica Islamica appoggiata dalle forze occidentali. Ma tra censure, arresti, aggressioni, restrizioni alle donne giornaliste, e nonostante la fuga all’estero di molti giornalisti esperti e il crollo dell’economia del Paese, i media afgani stanno ancora lottando per sopravvivere. E’ quanto emerge da un rapporto del Comittee to Protect Journalists (Cpj) , che ha monitorato da vicino la situazione sia dei giornalisti rimasti in Afghanistan che di quelli costretti all’esilio. Il rapporto, intitolato “Afghanistan’s media crisis” https://bit.ly/3C4nf5I , sarà discusso in una tavola rotonda online il 16 agosto alle 10 EST (le 16 in Italia), alla quale è possibile registrarsi.

L’indagine evidenzia un significativo deterioramento della libertà di stampa nel corso dell’ultimo anno ma, si sottolinea, i giornalisti afghani si sono dimostrati “straordinariamente resilienti”, continuando a lavorare sia all’interno del Paese che dall’esilio, nonostante i rischi per se stessi e le proprie famiglie.

venti interviste

Il rapporto speciale del Cpj include interviste con una ventina di giornalisti afghani, fra i quali giornaliste costrette a confrontarsi con il sistematico tentativo di cancellare di fatto, da parte dei talebani, le donne dalla vita pubblica. Al centro del rapporto anche la difficile situazione dei reporter in esilio – molti dei quali  https://bit.ly/3pe8p4Y ancora alle prese con la difficoltà di trovare ospitalità in Paesi che offrano loro adeguata protezione internazionale  –  e che cercano di continuare a tenere informati gli afghani.

Il rapporto include anche una serie di raccomandazioni rivolte ai talebani come autorità de facto in Afghanistan, oltre che ai governi e alle organizzazioni internazionali. In particolare si chiede ai primi di porre fine al controllo sui media da parte della Direzione Generale dell’Intelligence, e di consentire ad istituzioni civili di esercitare la loro autorità sul settore. I governi stranieri, si sottolinea inoltre, dovrebbero fornire sostegno al re-insediamento all’estero dei giornalisti a rischio, nonché assistenza umanitaria e tecnica a chi è rimasto un patria. Servono inoltre pressioni internazionali sui talebani, si afferma nel rapporto, affinché i talebani rispettino le promesse e garantiscano a tutti gli operatori dei media di riportare notizie liberamente, senza timore di rappresaglie.

richieste d’aiuto

Il rapporto è accompagnato da un breve video – entrambi sono in inglese.

Alle caselle email del Cpj –  scrive in particolare Steven Butler, consulente esperto dell’organizzazione basata a New York – giungono in continuazione messaggi di colleghi afgani che denunciano violenze e arresti, chiedono aiuto nel lasciare il Paese o segnalano, da parte di chi è fuggito per esempio in Pakistan o in Turchia, le difficoltà nel rinnovare il proprio visto in quei Paesi o nel trovare risorse per mantenere sé stessi e le proprie famiglie, con il timore di essere rispediti in patria. Gli Usa, aggiunge, respingono il 90% delle richieste di visto da parte degli afgani per motivi umanitari. Tanto che nei giorni scorsi  le 24 organizzazioni del Journalists in Distress (JiD) Network, che ha già aiutato centinaia di loro a fuggire dopo quel tragico 15 agosto, hanno inviato al Segretario di stato americano Anthony Blinken un appello ad accelerare il rilascio di visti di ingresso ai colleghi afgani. Ma anche per quanti hanno scelto l’esilio i problemi non mancano: nonostante gli sforzi dello stesso Cpj di inserire vari reporter nelle liste di evacuazione verso Paesi occidentali, dove possano trovare protezione internazionale, molti rimangono bloccati in Pakistan o in Iran in condizioni di incertezza e difficoltà economica. Ma anche quelli che ce l’hanno fatta, a raggiungere l’Europa o il Canada o gli Usa, temono che acquistare visibilità attraverso il lavoro metta a rischio di ritorsioni da parte dei talebani i familiari rimasti in patria.

aspetti economici

Per chi è rimasto in Afghanistan, le difficoltà sono primariamente legate al controllo sui media e sulle redazioni da parte dei talebani e alle minacce e agli arresti di singoli giornalisti, ma vi è anche un aspetto strettamente economico della crisi: la chiusura di molte testate ha lasciato molti colleghi disoccupati, e il collasso dell’economia ha ridotto drasticamente gli introiti pubblicitari anche per ToloTv, la più grande emittente del Paese – lo aveva segnalato il suo fondatore Saad Mohseni, all’ultimo Festival del Giornalismo di Perugia https://bit.ly/3Qp1yl5 . Quanto agli attacchi alla libertà di stampa da parte dei talebani, un recente rapporto delle Nazioni Unite – sottolinea ancora il rapporto – ha segnalato nei primi dieci mesi del nuovo Emirato islamico almeno 122  casi di arresti e detenzione arbitrari, 58 di maltrattamenti, 33 di minacce e intimidazioni e 12 di giornalisti detenuti senza che vi fosse su di loro alcuna informazione. In questo quadro diventa inevitabile, per i media che ancora operano in Afghanistan, l’autocensura sui temi più sensibili.

Illuminante nel rapporto il capitolo dedicato alla popolare emittente Ariana Tv, costretta a sospendere una trasmissione in diretta di una protesta delle donne a Kabul e tuttora impegnata in una difficile convivenza tra chi ancora vi lavora (più di uno tra i suoi direttori e vari giornalisti sono fuggiti all’estero) e i nuovi padroni del Paese. Quanto alla situazione delle donne e delle giornaliste con i nuovi padroni di Kabul, particolarmente significativo il racconto da Londra di Zahra Joya, fondatrice dell’agenzia Rukhshana, fondata e gestita da donne per dare alle donne un servizio informativo che le aiutasse anche a contrastare la cultura patriarcale dominante.

(nella foto, giornalista col velo a Tolo tv)

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