di FABRIZIO BOCCA

Di Eugenio Scalfari leggerete fiumi di articoli, racconti, ricordi importanti, analisi politiche e filosofiche, interpretazioni del suo giornalismo rivoluzionario, gli spogliatoi della politica…, libri, storie, documentari, film bellissimi fatti molto meglio e più profondi di quello che potrei fare io.

Racconterò soltanto, dunque, l’aneddoto che mi è più caro. Arrivai a Repubblica nel 1983, collaboravo già con giornali del gruppo Espresso, e i miei amici-colleghi Giuseppe Smorto e Mario Sconcerti mi introdussero nella redazione sportiva con la qualifica di “abusivo”. 

dal mattino a notte tardi

A quel tempo nei giornali si entrava così, prima intrufolandosi e poi cercando di far bene e diventare indispensabili. Io ero rapidamente diventato un “abusivo ufficiale h.24” e in assoluto è il periodo più bello, esaltante e divertente che ricordo sempre con più nostalgia. Non rimpiango la carriera, gli articoli o il mondo girato in virtù di giornalista di Repubblica, rimpiango quel modo di vivere lì. Totale, assoluto e un po’ folle, spesso al limite dell’irresponsabilità e con quelle persone speciali lì. Entravamo al mattino, uscivamo la notte tardi, per poi fare l’alba sempre tra noi, non concepivamo assolutamente nessun altro tipo di vita allora.

Si stava, allora, col cappotto o il giubbotto in redazione così da poter dire, se si era colti da qualcuno che sorvegliava, che si era di passaggio e avevamo portato un pezzo al caporedattore. Un po’ si faceva sul serio, un po’ era tutto teatro, pantomima e ognuno doveva recitare il suo ruolo. Era come se giocassimo a guardie e ladri, con guardie molto benevoli e addirittura complici.

ascesa in tutti i sensi

Repubblica era in un periodo di forte crescita e ascesa in tutti i sensi. C’era un grande clima di euforia, esaltazione, partecipazione a ogni livello. Scalfari che era uno e trino – fondatore, direttore ed editore di Repubblica –  cominciò a stare attento al problema degli “abusivi”, perché ce ne erano molti. Ci conosceva tutti e recitava il ruolo di gendarme burbero. 

Una volta improvvidamente risposi all’interfono di Sconcerti non essendo praticamente emersa bene la sua voce – “Mario? Marioooo?” –  ma gli bastò un “sì, pronto, chi è?” qualsiasi, appena accennato, per capire che c’era un abusivo in redazione. Sapeva benissimo che ero io e che mi aveva colto in fallo. “Chi sei? Chi seiiii? Sei Boccaaa?”. Sconcerti, che si era un attimo allontanato, si precipitò sull’interfono e farfugliò qualcosa, tipo: “Sì Direttore, era Bocca, è passato di qui a portarmi un pezzo”. Falso ovviamente, si stava tutti lì in attesa del da farsi, a lavorare e anche moltissimo a cazzeggiare. Attività che ho sempre considerato fondamentale per compensare la serietà e talvolta lo stress del lavoro. “Beh – fu la risposta – dì a Bocca, che se lo ritrovo in redazione chiamo i carabinieri per violazione di domicilio. Prima per lui e poi per te!”. Clic! E attaccò. Sconcerti si mise a ridere, io invece no, ne fui abbastanza spaventato. Immediatamente fuggii fuori, prima che il Direttore si facesse vivo.

topo in trappola

La Redazione Sport di Repubblica, come ha raccontato bene Peppe in altre occasioni, allora aveva un suo spazio strano, rimediato alla meno peggio (Repubblica partì senza sport). Praticamente era il fondo di un corridoio del terzo piano, senza finestre su via dei Mille o Piazza Indipendenza, a sinistra si andava nella stanza dei “dimafoni” e a destra verso gli “spettacoli” e la “cultura”. Praticamente era un budello, per andar via bisognava tornare sul corridoio verso scale e ascensori. 

“Cazzo! Scalfari! Sta venendo qui!”. Poco tempo dopo quell’episodio, un pomeriggio verso le tre Sconcerti, Beppe e io vedemmo Scalfari avanzare sul corridoio superare gli ascensori e venire verso di noi. Praticamente ero un topo in trappola, già vedevo i carabinieri in redazione. Mario, sbiancato, ebbe l’intuizione, “Dentro dai dimafoni!”. Entrammo nella stanza e tra l’ilarità di Nadia, Rosalba, Emilio e tutti gli altri mi chiuse dentro una delle tre cabine telefoniche dove i “dimafonisti” prendevano e registravano telefonate e pezzi degli inviati di Repubblica. Anzi, per fortuna ce ne era una libera, altrimenti saremmo tutti stati scuoiati sul momento.

piccolo ventilatore

Tutti zitti e complici, tutti muti, tutti a far finta di niente davanti al Direttore materializzatosi d’incanto allo Sport. La cabina telefonica insonorizzata sarà stata a mala pena un metro per un metro, ma dentro anche meno, con all’interno tutta l’attrezzatura. Si moriva di caldo, non c’era aria, bisognava accendere un piccolo ventilatore. E se si chiudeva la porta si soffocava. 

Proprio quel giorno Scalfari arrivò e si mise a chiacchierare con Sconcerti seduto davanti alla sua scrivania per una mezz’ora buona. Tra la scrivania di Sconcerti e la cabina dove ero chiuso e nascosto ci saranno stati quattro o cinque metri al massimo. Peppe ogni tanto si avvicinava ai dimafoni e controllava la cabina attraverso il vetro, per vedere come stavo. 

lasciapassare ufficiale

Appena Scalfari si allontanò, vennero a bussare alla cabina telefonica, da cui uscii madido di sudore, con la camicia zuppa che si poteva strizzare. Ancora oggi, quando ci si rivede, con Mario e Peppe lo ricordiamo. E non successe solo quella volta, furono mesi di fughe e giochi a nascondino.

Una gamba rotta del povero Oliviero Beha giocando a pallone, mi permise poi di stare in redazione come rimpiazzo, con un “lasciapassare” ufficiale di Scalfari, ottenuto da Sconcerti e Smorto. 

Pochi mesi dopo la fuga in cabina, Scalfari mi assunse nel suo giornale, che lui stesso aveva fondato, e di cui era editore e direttore. Vi sarei rimasto 39 anni. Quando mi chiamò non disse molto, dava tutto per scontato, ci considerava tutti suoi, sembrava perfidamente contento che avessi superato il suo vaglio. Mi accennò soltanto: “Ah, Bocca. Guarda che lo so che quei due là ti nascondevano”.

(nella foto, Fabrizio Bocca)

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