di ALBERTO FERRIGOLO

Quattro mesi di guerra, tre mesi di fila, poi una sosta in Italia e infine un altro mese in Ucraina, per rientrare in Italia, a Trieste dove vive, solo lunedì 18 luglio, per un periodo, “si spera”, di vacanza. 

Fausto Biloslavo è, come inviato, oggi Mediaset, un “veterano” dei conflitti internazionali. Classe 1961, ha cominciato molto presto. Nel 1982 è già in Libano come fotografo freelance, l’anno successivo fonda un’agenzia che realizza servizi nei teatri di eventi bellici, fenomeni di guerriglia o rivoluzioni. Nel 1987 è in Afghanistan, dove viene anche arrestato dalle truppe governative filosovietiche, rilasciato dopo sette mesi di prigionia. Negli anni ’90 è in Jugoslavia, poi Croazia, Bosnia, Kosovo, nel ’97 in Cecenia, nel 2001 è tra i primi a entrare a Kabul, dove resta fino alla caduta di Saddam Hussein, mentre nel 2011 realizza l’ultima intervista al colonnello Gheddafi.

In base all’esperienza, c’è una specificità del conflitto in Ucraina che non hai mai riscontrato prima?

“Almeno due, importanti. Primo, che è una guerra convenzionale e con armi pesanti, tra veri eserciti. Fino ad ora eravamo abituati a conflitti asimmetrici, come con Stato islamico. Poi la guerra è nel cuore dell’Europa. Certo, ci sono stati i Balcani, ma questa è una guerra un po’ diversa, molto più pesante. C’è di mezzo una superpotenza mondiale”.

E peculiarità dal lato professionale?

“Il livello raggiunto dalla propaganda e dalla disinformazione. Già da tempo faceva parte dei conflitti, che si vincevano o meno non solo sul campo di battaglia. Informazione e disinformazione avevano un certo peso, ma ora l’hanno aumentato sensibilmente, perché qualsiasi cosa fai, da una parte o dall’altra, o sei filoucraino o sei filorusso. Filo-niente non esiste, non c’è via di mezzo possibile. Almeno sembra non esserci, ma in realtà c’è. Personalmente penso di cercare di fare dei reportage, non dico obiettivi, perché non fa parte di questo mondo, quantomeno corretti. Almeno per non farsi fregare dalla propaganda, da una parte e dall’altra. Ecco, sono le due caratteristiche che prima non c’erano: la guerra convenzionale e il livello di propaganda raggiunto”.

Qual è la cosa più difficile con la quale hai avuto a che fare in questi mesi?

“La cosa più difficile e anche pericolosa è andare non solo sul campo, dove va chiunque, ma in prima linea. Primo perché è molto pericoloso, secondo perché comunque anche l’esercito ucraino, sia pur moderno e filo occidentale, deriva da una mentalità sovietica, che è quella del segreto. Segreti inutili perché oggi con i satelliti, i droni, i giornalisti cosa possono rivelare in fondo? Però il livello della riservatezza è a tal punto sedimentato che oltre al pericolo dei bombardamenti, dei combattimenti, c’è anche quest’ulteriore difficoltà, per cui non è facilissimo andare a vedere la guerra veramente da vicino. Si può stare anche in albergo, sia chiaro, oppure nella residenza dell’Ambasciatore, così come ci sono stati tanti colleghi prima di venire evacuati. Tutto dipende da come vuoi fare questo mestiere. A me è capitato di andare anche sulla ‘zero line’: hai la terza linea di difesa che è quella fortificata, la seconda linea di difesa che è quella dove si combatte e poi hai la ‘zero line’, la più vicina, per cui lì sei abbandonato da Dio e dagli uomini. Dove come qualcosa si muove ti arriva una granata in testa, perché sei sempre individuabile. Non è facile, ma non è impossibile raccontare la guerra da vicino e dal di dentro”.

Come lavori? Com’è la tua agenda quotidiana? Con chi la costruisci?

“L’agenda la costruisco io assieme a chi collabora con me. In realtà, in Ucraina c’erano dei fixer, ma quelli bravi sono scappati, sono andati via. Ce n’è ancora, ma si contano sulle dita d’una mano. Fixer veri, gente che non fa solo l’interprete, ma che t’aiuta. Però sono stati tutti assoldati dai grandi network, Bbc in testa. Alla fine trovi solo dei traduttori, se non degli autisti, che non sono neanche completi traduttori. Perciò t’arrangi, abbastanza da solo, nell’organizzare dove andare ogni santa mattina. Ti svegli presto, pigli, parti, cerchi di raggiungere il punto che ti sei prefissato, che può esser Lysychansk prima che cadesse, cosa che sono riuscito a fare con un salesiano ucraino che parla italiano benissimo perché ha vissuto otto anni in Italia. Portava aiuti e di ritorno feriti e gente da evacuare. Ci si organizza di giorno in giorno. Poi hai il supporto del collaboratore locale che può essere più o meno bravo. Devo cercare di portare a casa quasi ogni giorno un servizio – nell’ultimo mese ne ho fatti 23, quasi uno al giorno – di almeno 3 minuti, che stia in piedi da solo e che racconti la guerra nelle varie sfaccettature. Devi trovare una storia”. 

Come ti muovi nel flusso delle notizie, come le filtri? Come le scegli?

“Da là do un’occhiata alle agenzie di stampa, ma in genere non le calcolo minimamente. Lo dico onestamente, anche perché arrivano per lo più in ritardo, sono fumose, talvolta sbagliate, in altri casi frutto della propaganda. Quindi mi baso molto sul terreno e sulle fonti dove mi trovo, sia civili che militari o umanitarie che sono sul campo. Faccio conto su di loro. Tutto avviene lì, sul campo. E sul campo ti trovi la storia e la racconti. Certo, devi conoscere il terreno, devi esserci stato, devi capire, avere i contatti giusti. In un mese mi sono fatto tutti i fronti: Zaporizhzhia, Donbass, Mykolaiv, spostandomi da un fronte all’altro soprattutto in treno e poi sul posto, con una macchina e un interprete. Sul campo ti affidi poi al prete salesiano, all’esercito, ai volontari che aiutano i civili intrappolati”.

Cosa cerchi di raccontare, dal punto di vista della notizia e della sua qualità?

“Le piccole storie. Che poi rispecchiano quasi sempre le grandi storie di una guerra. Come dicevo all’inizio questa è una guerra d’artiglieria, allora uno degli obiettivi che ho raggiunto alcune volte è stato seguire la batteria d’artiglieria dei famosi lanciarazzi multipli in Ucraina. Seguirla nella sua battaglia quotidiana, che prima di tutto è anche una battaglia per non essere individuati e rimanere inceneriti, dal cielo, dai droni. E poi come in questa partita a scacchi mortale si muovono per contrastare l’artiglieria russa, per esempio. Oppure arrivare a una ‘zero line’, l’ultima era quella di Charkiv, dove c’era questo avamposto di uomini dimenticati da tutti, che hanno solo come ultima opzione quella, se arrivano i carrarmati russi, di scappare e darsela a gambe… Sono sotto costante bombardamento. Oppure raccontare i cittadini che dicono: ‘Abbiamo bisogno delle armi’. Tratto questo genere di storie, non faccio grandi scenari di geopolitica”.

Riesci a ricostruire il puzzle di un’informazione che si disperde in mille rivoli, che affluisce parcellizzata, e ridare il nesso, il senso di quel che succede?

“Penso di sì. E senza seguire pedissequamente l’attualità. È chiaro che se sono in Donbass e lanciano dei missili a Kiev non me ne occupo, sono mille chilometri di distanza. Anche perché ne lanciano già abbastanza nel Donbass. Però sì, assolutamente: l’utilizzo di armi pesanti, i civili in difficoltà che vivono nei sotterranei come zombie o addirittura nei rifugi antiatomici dell’epoca sovietica, civili in fuga, gli obiettivi che sono sì civili come le scuole che vengono colpite, ma poi scopri che ogni scuola è un bunker, e nel bunker sotto la scuola c’era un’unità dell’esercito. Quindi, se è vero che i russi hanno colpito la scuola è altrettanto vero che in quella scuola c’erano i militari ucraini. Questo è e queste sono le storie. Oppure Charkiv, che ogni notte, adesso purtroppo anche di giorno, si becca dai due ai quattro missili. Si sanno anche gli orari”. 

Hai mai paura?

“Sì, sempre. Bisogna avere paura. Perché prima di tutto Rambo non esiste, poi senza la paura in realtà rischi di più, perché non ti rendi conto del pericolo”.

È indispensabile appoggiarsi all’esercito per muoversi e avere agibilità?

“No, no. Però poi ci sono i posti di blocco, devi passarci attraverso, è assolutamente normale. Ci sono delle giornate in cui vai con l’esercito, altre con la difesa territoriale e altre ancora in cui vai da solo o con i civili o i volontari civili…  Anzi, proprio perché l’esercito è anche un po’ chiuso non è che ogni giorno puoi o riesci ad andare con l’esercito”.

Utilizzo flessibile dell’esercito, dunque?

“In certi punti fino a Lysychansk, in realtà ci siamo andati anche da soli, ma oltre ti devi appoggiare alle forze sul campo, perché non c’è più niente, c’è solo la ‘strada per l’Inferno’, i russi o gli ucraini”.

Perciò non ti senti un embedded?

“Sostanzialmente no, embedded ‘a giornata’, semmai. Per esempio, tra Mykolaiv e Cherson, per andare al fronte a un certo punto non puoi proseguire neppure con la tua macchina, devi andare per forza con un mezzo d’una brigata. Quindi in quel caso vai con i mezzi della 59esima Brigata, è meglio così. Nel senso che una macchina può diventare un obiettivo, ma si tratta d’una giornata, poi il giorno dopo fai altro. Fra le case bombardate durante la notte, magari perché hanno preso in pieno la casa e si è aperto un cratere nel cortile solo perché hanno sbagliato mira, ma la base da colpire era oltre la strada. Lì non è che vai con l’esercito, vai da solo”.

Cosa significa fare l’inviato o il corrispondente di guerra, mestiere che per altro sembra tornato d’attualità? 

“È una figura che c’è sempre stata e sempre ci sarà perché ciò che fa la differenza, tra le agenzie, i massimi sistemi, le analisi di geopolitica, è il ‘campo’, cioè l’andare sul campo. Ed è tutta un’altra storia, là annusi il conflitto, in trincea capisci cosa succede veramente in prima linea. È un mestiere che si fa, almeno nel mio caso, per passione. La vita non ha prezzo, non credo si faccia per altro, si fa per passione e servirà sempre”. 

Un testimone del tempo?

“Esatto. La guerra in Ucraina resterà nei libri di storia”.

È un mestiere vituperato quello dell’inviato di guerra?

“Purtroppo adesso con l’Ucraina c’è stato un revival per cui tanti dicono ‘vado in guerra, dopo di che resterò a Leopoli’, per dire. Poi magari si trova invece a 1.500 km dal fronte. Fino a prima dell’Ucraina l’inviato è staro sottovalutato, sì, certo, c’è l’Afghanistan, c’è la Libia, ma alla fine anche un po’ poi chi se ne frega…, adesso invece la figura dell’inviato torna d’attualità. Però bisogna vedere sempre come lo fai, ci sono varie gradazioni”.

Sul fronte di guerra ci sono giornalisti accreditati, freelance, fotoreporter, accreditati e freelance. È una comunità o ciascuno e a sé?

“Ciascuno fa per sé. Diciamo però che tutti devono essere accreditati, non è che in Ucraina ci vai e ti muovi…, al primo posto di blocco anche molto distante dal fronte ti fermano. In Ucraina ci vai se hai l’accredito del Ministero della Difesa ucraino. Punto. Altrimenti non fai un passo. Non è una banalità. Dopo di che, ci sono tanti freelance, forse sono la maggioranza, poi ci sono gli inviati delle testate più o meno grandi. Spesso nel Donbass ho lavorato con dei colleghi scandinavi. Non ci sono solo inglesi americani, tedeschi, francesi, gli italiani sono solitamente meno degli altri, ma in questo caso in Ucraina ci siamo difesi”. 

E tu come sei? Come ti definiresti come inviato”

“Io sono un po’ lupo solitario, vado in giro, curioso. Anche perché quello che una volta chiamavamo il ‘pool dei giornalisti’, e che personalmente ho ribattezzato ‘Gruppo vacanze Piemonte’, non funziona in zona di guerra. Si puoi andare in giro con un altro collega,  oppure al massimo in due o tre in macchina, ma non è che puoi fare le colonne… Questo conflitto è molto, molto pericoloso, per i motivi che ho raccontato. Quindi non si scherza. Noi italiani non abbiamo una cultura della sicurezza come in altre parti del mondo, anche se molti sono come noi, la maggioranza direi, però a fare l’inviato di guerra non ci possono andare tutti”.

(nella foto, Fausto Biloslavo)

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