di ANDREA GARIBALDI

Di Gianni Clerici, che è morto il 6 giugno, dirò solo due cose. 

La prima è che capì, con pochi altri, come cambiava il giornalismo. Lo capì con leggerezza, senza fare proclami. Capì che i lettori non avrebbero comprato i giornali per sapere fatti o risultati, ma per gustare un sapore, sentire un odore, conoscere cosa c’era attorno, guardare da uno spioncino, aprire una finestra. 

Nel pezzo sulla finale di Wimbledon fra Borg e McEnroe, scrisse: “Sono stato tre ore e cinquantatré minuti senza fare la pipì. Non solo per questo, la finale mi è parsa indimenticabile. Prima di andare sotto, quella testa rossa e dura di Mac ha salvato qualcosa come sette match point. Prima di difendere in quel modo orgoglioso una sconfitta quasi sicura, aveva condotto il match per circa un’ora e dieci minuti, facendo apparire Borg goffo, inadeguato all’erba, a tratti impaurito”. Su Federer (28 giugno 2004): “Il suo lavoro di avambraccio ricorda quello di Sugar Ray Robinson, quello di ginocchia il miglior Tomba su un paletto. Oltre alla sublime qualità del gesto, il Federer di oggi possiede, in massimo grado, le caratteristiche del killer, sportivo, beninteso. Gioca al massimo delle possibilità non appena il punto diviene pesante. Si supera, insomma negli scambi decisivi”. Su Pietrangeli: “Quante sere non abbiamo passate insieme, nell’aria buia di una discoteca, e le ore delle partite si facevano più vicine. L’angoscia che provavo, da ex giocatore, da amico, non sembrava neanche sfiorare Nicola”.

numeri e classifiche

Tutto questo, Gianni Clerici lo capì molto prima della crisi dei quotidiani, soppiantati man mano dalla velocità e onnipresenza del web, lo capì prima che ce ne fosse bisogno, si mise in posizione con largo anticipo. E i lettori andavano a cercare i suoi pezzi, li aspettavano e li assaporavano, anche quando i giornali erano ancora buoni per dare numeri e classifiche. 

Scrisse: “Ho voluto bene ad Arthur Ashe, perché altro non si poteva fare. Un negro che difendeva i diritti suoi e dei suoi fratelli senza urlare né rompere vetrine, a bassa voce, come accadeva in altri tempi alla Camera dei Lord. Un negro che faceva massima attenzione a vestirsi di candide flanelle”. La parola “negro”, due volte, senza paura di essere politicamente scorretto (erano altri tempi).  E poi: “Se fossi un po’ più gay di quello che sono, mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volée di McEnroe”.

quattordici once

La seconda cosa è che, con quell’aria svagata, Clerici offriva ai suoi lettori preziose nozioni per specialisti. I lettori di sport (ma anche quelli di politica, di economia, di spettacoli) amano avere spiegazioni nei dettagli, di quelle che si danno dentro circoli ristretti, fra intenditori. Ecco Borg che “impugna il rovescio come aveva appreso giocando a hockey su ghiaccio”. Il gioco di Djokovic che “si basa su una condizione tecnica straordinaria, anche per la capacitò di assorbire e metabolizzare la fatica. Grazie allo straordinario perno delle gambe, Nole è in grado di colpire splendidamente palle per altri quasi perdute, all’esterno delle righe laterali, e trasformarle in parabole rientranti di geniale geometricità”. Ancora Borg, che “fu il primo ad usare racchette composite, legno mescolato a plastica con uno scheletro di grafite. Pesantissime, oltre le 14 once, che gli consentirono di sviluppare per primo un movimento rotatorio sul diritto”.  

Con leggerezza, in largo anticipo, capì, senza fare proclami, che i lettori di una certa materia sono anche una comunità che va informata, guidata, stimolata e ascoltata.

(nella foto, Gianni Clerici)

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