di MICHELE MEZZA

La possente campagna pubblicitaria promossa da Google sui grandi quotidiani nazionali rappresenta forse il vertice di quella spirale di masochismo che caratterizza le comunità in crisi progressiva. Leggere sulle pagine di carta e sugli spazi on line delle testate più prestigiose che il motore di ricerca più potente del mondo si permette di annunciare come sostituirà il legame del singolo utente con il quotidiano che in quel momento sta leggendo, produce un brivido a chi non ignora il cinismo con cui Google sta pianificando la sua incontenibile soluzione finale dei media tradizionali. 

Giostrando con le leggi e le norme europee e nazionali, Google riesce a rovesciare i vincoli che dovrebbero condizionarlo costringendolo a pagare i contenuti che estrae dalle testate giornalistiche, in una morsa inesorabile con cui sta schiacciando i gruppi editoriali. Interpretando i margini di ambiguità inseriti dalla pressione lobbistica esercitata dal gruppo della Silicon Valley a Bruxelles in sede di scrittura finale del testo sul copyright, Google si permette di decidere quanto e chi pagare, selezionando così il mercato fra editori amici, a cui riconoscere un piatto di lenticchie in cambio del self service sui contenuti, e invece gruppi ostili che vengono esclusi persino dal riconoscimento di legge sulle pubblicazione in rete dei propri testi o video.

servo e padrone

In questo quadro appare disorientante la rassegnazione con cui i capponi editoriali festeggiano il proprio Natale, per rimanere ad un vecchio adagio contadino, e pur di racimolare qualche spicciolo si pubblica sulle proprie testate la promozione di Google news, che celebra appunto la sostituzione del quotidiano con le rassegne delle notizie del sistema digitale.

In questa malsana relazione fra servo e padrone forse il mondo del giornalismo dovrebbe spendere qualche parola, almeno per tutelare futuro e dignità. Sarebbe infatti urgente che il sindacato della categoria e l’Ordine professionale valutassero i termini per aprire una vera vertenza Google, ponendo al centro della scena italiano le sopraffazioni che vengono ormai quotidianamente imposte dal monopolio del motore di ricerca.

Le occasioni non mancano e gli strumenti per iniziare almeno una prima strategia negoziale che costringa Google al tavolo del confronto cominciano ad esserci. 

regolamenti europei

Sul versante normativo i nuovi regolamenti approvati in sede comunitaria- il Digital Service Act, e il Digital Market Act- insieme al DGPR, il regolamento sui dati personali, permettono di imporre alle piattaforme un confronto non formale sull’uso dei dati e l’evoluzione degli algoritmi che devono sempre essere trasparenti e condivisi. 

Inoltre ci sono oggi anche strumenti più stringenti, come ad esempio la pressione sul governo perché si adegui alla recente sentenza della Corte di giustizia europea, sulla conservazione dei dati che condanna Google come trasgressore appunto del DGPR.

Da due anni la Corte Europea, rispondendo ad un esposto di un giovane austriaco, Maximilian Schrems, ha dichiarato illegale la procedura con cui Google trasferisce negli Stati Uniti i dati che raccoglie in Europa, sia dagli utenti che utilizzano i servizi gratuiti del motore di ricerca, sia, in particolare, dalle aziende, che pagano per funzioni, come Google Analytics. Un gigantesco flusso di dati che attraversa quotidianamente l’atlantico depositando nei server americani informazioni sensibili sulla nostra vita e la nostra economia. 

esplicita direttiva

In Francia già da mesi tutte le attività della pubblica amministrazione di quel paese hanno abbandonato Google, proprio appellandosi alla sentenza che accusa appunto il grande G di violare le norme europee di tutela dei dati. In Italia siamo ancora indietro. La nostra Pubblica amministrazione non ha reagito alla sentenza europea. Solo in questi giorni, dopo sollecitazioni e denunce, alcuni degli apparati pubblici hanno cominciato ad adeguarsi alle norme europee, disinstallando le funzioni di Google, come appunto gli Analytics, dai propri siti. 

L’Agcom, l’Autorità delle comunicazioni, deve ancora dare una direttiva esplicita e sanzionare chi ignora le norme europee. Come l’Authority della Privacy, così sollecita ad intervenire quando componenti della stessa PA sembrano aggirare le tutele sui diritti individuali, come è capitato in tema di pandemia, non dà segnali nell’ottemperare alla sentenza contro Google.

indicazioni del ministro

Non parliamo del governo. Il ministro Brunetta dovrebbe dare indicazioni precise proprio mentre sollecita la modernizzazione e la digitalizzazione degli apparati pubblici: come procediamo? Applichiamo il DGPR o no? E se, dice l’Europa, Google sta violando le leggi comunitarie, come è possibile che il ministro Colao non abbia nulla da eccepire sul fatto che possa ambire a vincere il bando per il Cloud nazionale un gruppo come Tim, che si appoggia completamente alla gestione dati del motore di ricerca più potente del mondo?

Chi se non la Federazione della stampa e i Comitati di redazione dei giornali che ospitano le paginate di Google, dovrebbero pretendere un adeguamento del sistema amministrativo e imprenditoriale italiano alla sentenza europea, revocando a Google contratti lucrosi di servizio? 

Si aprirebbe cosi una vera vertenza civile in cui il mondo dell’informazione, in termini non luddistici ma assolutamente progressisti, si proporrebbe come testimonial dell’autonomia e sovranità del sistema Italia sul mercato digitale, dando a Google il segnale che la ricreazione in cui poteva fare quello che voleva ed essere anche pagato è finita.

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