di CAMILLA FOLENA
Davide Fontana ha ucciso “una giovanissima donna, madre di un bimbo ancora in tenera età, ‘colpevole’ soltanto di volere seguire i propri progetti ed aspirazioni lontano dall’indagato”. È questa la dicitura utilizzata dal giudice, dopo aver ascoltato il reo confesso del femminicidio di Carol Maltesi, una donna di 26 anni, uccisa dal proprio compagno a gennaio. Maltesi, madre di un bambino di 5 anni, è stata uccisa a colpi di martello e accoltellata alla gola. Dal gennaio scorso l’assassino ha conservato il corpo in un congelatore appositamente comprato, vivendo a pochi metri di distanza e rispondendo ai messaggi dal cellulare della vittima per simularne la buona salute.
Infine, il corpo bruciato e fatto in pezzi di Maltesi è stato scaricato in un dirupo nel bresciano. Da inizio 2022, sono già almeno 14 i femminicidi avvenuti, secondo quanto riportato dal lavoro di ricerca del sito femminicidioitalia e quello di Maltesi non è nemmeno il più recente, nonostante il corpo sia stato rinvenuto poco più di dieci giorni fa. Così, ancora una volta, di fronte a un delitto efferato compiuto contro una donna in quanto donna, la stampa italiana si trova sul banco di prova delle narrazioni corrette e sembra uscirne sconfitta.
spettacolo e crimine
Il mondo della ricerca ha ampiamente esplorato la relazione tra media e crimine arrivando a sostenere, come nel caso degli studiosi Chris Greer e Yvonne Jewkes, che “le rappresentazioni del crimine, della devianza e del controllo, illustrano fino a che punto i media nutrano un’apparente ossessione per la demonizzazione degli ‘Altri’ e fungano da uno dei siti primari di inclusione ed esclusione sociale nella tarda modernità”.
Nel caso di Maltesi, da un lato c’è la spettacolarizzazione del crimine efferato come parte integrante di modelli di business dell’ecosistema di informazione; modelli tuttora in perpetua trasformazione centrifuga. Spettacolarizzazione che si interseca, d’altro canto, con il tema della narrazione dei crimini di genere: violenze sessuali, psicologiche, abusi, molestie e femminicidi.
Non è un caso che negli anni si siano accumulati esempi delle narrazioni stereotipate ed errate dei media italiani rispetto ai crimini sulle donne. Basti pensare al racconto mediatico portato avanti su alcuni femminicidi – da Elisa Pomarelli a Chiara Ugolini – in cui l’omicida è un “orco” o un “gigante buono”, la vittima “bella e impossibile” e il movente del crimine “un amore non corrisposto”.
violenza sottovalutata
Narrazioni che se non neutralizzano la responsabilità del reo, spostano il focus sulla vittima che non corrisponde le attenzioni del suo carnefice, creando una falso rapporto di causa-effetto che risulta confondente e scorretto.
Per questa ragione, col tentativo di ridurre narrazioni errate di questo tipo, dal 2017 nella Federazione Nazionale della stampa italiana (Fnsi) è stato sottoscritto il “Manifesto di Venezia delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione. Contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso immagini e parole”. Parla chiaro l’articolo 5, che ricorda di “utilizzare il termine specifico ‘femminicidio’ per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della ‘sottovalutazione della violenza’: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale”.
Termine che, per il crimine di Maltesi, a quanto riporta un’intervista del 31 aprile a un’attivista di Non Una Di Meno Brescia su Radio Onda D’Urto, non è stato utilizzato da molte testate. Il Manifesto di Venezia, tra l’altro, pone anche l’accento, negli articoli 7 e 10, sull’illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati, utilizzando il corretto linguaggio di genere nei confronti di sex workers e persone trans; e sull’evitare l’utilizzo di termini fuorvianti come “raptus”, “follia”, “gelosia” e “amore” per i crimini dettati dalla volontà di possesso o annientamento.
giustificarsi sempre
Nella narrazione predominante del caso Maltesi, però, si è passati dall’attenzione smodata della cronaca rispetto al nuovo status professionale della vittima – passata “da un lavoro come commessa ad attrice hard” – a tweet insultanti da parte di comici italiani relativi alla professione della vittima.
Appare meno citato, invece, il fatto che la medesima occupazione di attore hard fosse svolta anche da Fontana. L’assassino viene in primis descritto come “food blogger” e “bancario”. Gli studi di genere arrivano in soccorso su questo, quando a più riprese evidenziano l’utilizzo di un doppio standard rivolto alle narrazioni riguardanti le donne, che altro non fa che rinforzare un background culturale discriminatorio e sessista. Così, il dibattito pubblico relativo alle narrazioni pregiudizievoli della stampa sul caso Maltesi ha cominciato a prendere piede persino sui social: “È pazzesco, invece di indignarci sulla fine di una donna, una ragazza, una mamma, ci concentriamo sul suo lavoro. Come se questa donna dovesse giustificarsi sempre, persino da morta!”, scrive il direttore di una delle maggiori agenzie di stampa italiane.
“A distanza di oltre 24 ore- aggiunge un utente su Twitter- si continua a parlare della professione della ragazza uccisa. E niente, questo Paese non può farcela”.
nome d’arte
Fortunatamente la sociologia fornisce diversi spunti per comprendere cosa risiede alla base di queste narrazioni, che hanno visto l’utilizzo compulsivo da parte della stampa della professione della vittima, dei particolari sul social OnlyFans a cui era iscritta, fino ad arrivare a titoli che non fanno riferimento primario all’identità reale della vittima quanto, invece, al nome d’arte che aveva scelto di utilizzare. Un meccanismo che la sociologia riconosce come deumanizzante, che finisce per definirla esclusivamente in base alla sua professione.
Del nome d’arte di Fontana, d’altro canto, non sappiamo alcunché.
Nel senso comune, allora, sembra prendere forma la distinzione “semplificatoria tra buoni e cattivi” che ha formulato Erika Bouris nel suo “Complex Political Victims”, circa le vittime ideali e le vittime reali. Le prime sono più legittimate, e il crimine su di loro commesso viene maggiormente riconosciuto e empatizzato dalla società perché riconosciute come innocenti, pure, superiori moralmente al proprio carnefice – tanto da aver la capacità di perdonarlo – e prive di responsabilità per ciò che gli è accaduto. Semplificando, in un crimine che riguarda una donna, o questa assume i tratti di una Beatrice dantesca oppure fuoriesce dallo status di vittima ideale.
retaggio culturale
Maltesi dunque finisce per rientrare in quelle che Bouris definisce invece come vittima reale: vittime non ideali, non aderenti al criterio di purezza e innocenza insito nel senso comune, con le quali si finisce per empatizzare di meno e sulle quali si sviluppa spesso il meccanismo di victim blaming, che sposta parte della responsabilità di ciò che è accaduto in capo alla vittima – la quale se non si fosse comportata come ha fatto non avrebbe subìto le conseguenze che ha subìto. Alla base del victim blaming, supportato dalla stampa per il caso Maltesi attraverso il discredito della sua professione – considerata tra le righe “poco consona” per una donna di buon costume – non c’è però un’esclusiva responsabilità dei media.
Il mondo dell’informazione non si muove infatti con logiche proprie ed esteriori rispetto alla società tutta, anzi. L’informazione si adegua spesso al senso comune, alle richieste dei pubblici, al retaggio culturale e morale insito nella società.
Ciò che andrebbe riconosciuto, dunque, è che la società italiana, di cui i media finiscono per essere specchio, nel suo senso comune dubita in complesso che la vittima in questione si sia comportata in modo tale da meritarsi un destino diverso. Il caso Maltesi porta alla luce, da un lato, il nodo sociale, patriarcale, relativo alla concezione comune delle caratteristiche e i comportamenti a cui una donna dovrebbe attenersi.
status perpetuo
Dall’altro lato, permette di toccare con mano la realtà delle vittime, persone la cui identità, fino al crimine subito, non era definita dallo status di vittima; individui liberi con libera scelta, passioni, professioni e storie che possono essere più o meno vicine a ciò che la società ritiene socialmente accettabile. Analizzati allora gli errori mediatici, le tecniche di neutralizzazione e colpevolizzazione che la sociologia della vittima ci indica, come il doppio standard nel costruire vittime ideali e minimizzare quelle reali, qualcosa ancora sfugge al racconto mediatico sul femminicidio di Maltesi: oltre alla violenza criminale con cui è stata uccisa e alla spettacolarizzazione condita da discredito che i media possono contribuire a creare, Fontana prima, e la società – dai media ai pubblici – poi, hanno privato Maltesi della sua identità più composita, relegandola in uno status perpetuo di vittima e attrice hard.
Perché sarà sempre più semplice leggere un fenomeno nelle sue singole specificità che lo allontanano dal “ciò che ci potrebbe accadere”, piuttosto che mettere in discussione un retaggio culturale errato, che mette sul piatto la scomoda responsabilità della società tutta verso quella violenza sistemica che porta ai femminicidi.
(articolo da Blasting News. Camilla Folena, classe 1994, è dottoranda in Studi Umanistici – Scienze del Testo e della Comunicazione presso l’Università di Urbino Carlo Bo. Già laureata in Scienze Politiche, e in Criminologia per l’Investigazione e la Sicurezza. Giornalista pubblicista, ha iniziato la professione nella redazione Welfare e Sanità dell’Agenzia di stampa DIRE, è membro della redazione di AREL – la rivista)