di GIULIA AUBRY

A pochissimi giorni dall’ingresso dei primi soldati russi sul territorio ucraino, cosa sappiamo di questa guerra? Qual è la narrazione che ci arriva dagli schermi delle televisioni, dei tablet e degli smartphone? Mentre sul terreno sembra di essere tornati indietro nel tempo con una guerra (quasi) simmetrica ed eserciti che si fronteggiano lungo fronti definiti da fiumi, ponti e strade, il racconto del conflitto in Ucraina è del tutto nuovo per strumenti, portata del coinvolgimento, linguaggi e tempistiche. E lo è anche rispetto alla narrazione degli attacchi terroristici di Isis in Europa che sono, in fondo, il conflitto più recente che abbiamo vissuto in territorio europeo.
Nel racconto di questo assurdo, ma non certo imprevedibile conflitto si ha la sensazione di sapere tutto. Le dirette televisive 24/24, gli aggiornamenti delle news sulle testate giornalistiche web; la possibilità di accedere alla stampa estera, anche quella proveniente dai Paesi coinvolti nel conflitto; i social media che condividono materiale che sembrerebbe provenire direttamente dal terreno; il leader ucraino Zelensky che twitta quasi in diretta il resoconto abbreviato delle sue telefonate con altri capi di Stato, anticipando, talvolta, decisioni che nella realtà non sono state ancora prese, come nel caso della chiusura del Mar Nero da parte di Erdogan.

entrare nel conflitto

Inondato da queste informazioni così dettagliate, corredate di file audio – come nel caso della vicenda dell’isola dei Serpenti – di video ed immagini in presa diretta, il lettore-spettatore ha la sensazione di “entrare” nel conflitto. Come se si trovasse di fronte alla scena di un film o di una serie TV non si pone il problema della “verità”, della verifica delle fonti che del giornalismo e dell’analisi dovrebbero essere un pilastro fondativo. Così il Tg1 e il Tg2 mandano in onda immagini dei bombardamenti russi in Ucraina, ma a un’analisi più approfondita si tratterebbe del videogioco War Thunder. Alcune testate rilanciano la foto di una bellissima ragazza ucraina seduta sull’autobus e armata di AK47 per raccontare la mobilitazione del popolo ucraino, ma si tratterebbe di un’immagine stock pubblicata nel 2020 sul sito imgur.com. Il Sole 24 ore racconta l’attacco russo a Kiev ma utilizzando immagini che sarebbero riconducibili a una parata militare del maggio 2020. E la stessa cosa succede su testate internazionali e su account di personaggi politici di rilievo come l’ambasciatore ucraino negli Stati Uniti, Volodymyr Yelchenko che condivide un video di presunte esplosioni sui palazzi di Mariupol, provenienti in realtà da un profilo TikTok noto per pubblicare clip di esercitazioni ed operazioni militari.

iraq e kuwait

Di fronte alla tragedia dell’Ucraina, questi episodi potrebbero sembrare risibili e neanche particolarmente originali. Soprattutto se si pensa alle immagini dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1991 o alla storia delle incubatrici distrutte nell’ospedale di al-Addam a Kuwait City. Una narrazione fortemente emotiva presentata da tutti i media del mondo, ma che si scoprì solo un anno dopo essere stata costruita a tavolino dalla società di comunicazione Hill & Knowlton.

Ma nell’era dei social media la dittatura dell’immagine ad ogni costo, il bisogno di pubblicare senza verifica per bruciare gli altri sul tempo ha accelerato il processo, l’ha reso facilmente accessibile ed utilizzabile senza il bisogno di una agenzia di comunicazione multimilionaria come negli anni ’90. Chiunque – e con una spesa minima – può costruire informazioni fake che diventano virali, chiunque può accedere a milioni di contenuti diversi pubblicamente disponibili e diffonderli, non necessariamente per uno scopo strategico-politico ma per un’esigenza di marketing confidando nella memoria breve del web. 

siti di controinformazione

Ma seppure la rapidità del web tende a bruciare i contenuti, qualcosa di queste fake news rimane per sempre, tracciata e tracciabile, e soprattutto utilizzata da siti di “contro-informazione” che se ne servono per delegittimare fonti giornalistiche autorevoli, insinuando il dubbio: se hanno pubblicato una foto di archivio per raccontare un conflitto attuale (cosa tra l’altro sempre fatta, ma con il bollino “immagini di repertorio”) su quante altre cose vi avranno mentito?

Questa informazione spiralizzata, questo rimpallo continuo tra fake news, fact checking a posteriori e siti di fake news che utilizzano gli errori degli altri per rinforzare le proprie notizie, fa sì che alla fine della guerra in Ucraina nessuno sappia nulla. E non perché non ci siano giornalisti sul campo, non perché ci sia – o almeno non solo – una forte censura, ma proprio perché c’è tantissima informazione, gettata in pasto al lettore/spettatore senza una verifica. 

ripetizione ossessiva

Così il lettore/spettatore rilegge, guarda o ascolta la stessa storia cento volte, indipendentemente se sia confermata o meno, e nella ripetizione ossessiva dell’evento lo stesso perde il suo significato originario, come Baudrillard ebbe a dire, ormai più di 20 anni fa, a proposito del crollo delle Torri gemelle. Come nel caso del bambino morto nell’ospedale pediatrico Okhmadyt a Kiev. Nel primo racconto sui media nazionali e internazionali, il piccolo sarebbe rimasto ucciso a seguito del bombardamento dell’ospedale da parte delle forze russe. La Onlus Soleterre, che ha propri operatori sanitari in loco ha dovuto smentire e precisare la notizia, pubblicando sul proprio profilo Facebook che il bambino sarebbe rimasto ucciso sulla strada, a causa dei combattimenti in corso, e morto in ospedale per emorragia mentre i medici cercavano di salvarlo. La notizia non è meno grave, ma la sua valenza e il suo utilizzo sono diversi e la “scoperta” dell’imprecisione avvalora coloro che generalizzano, dicendo che “se una sola cosa è falsa, tutto è falso”.
La narrazione, nell’epoca di Netflix e della serialità, di una singola storia, emotivamente forte, diviene così più importante del quadro generale, soprattutto quando trova riscontri in episodi del passato. Il “fottetevi” dei soldati ucraini sull’Isola dei Serpenti come il “nuts” del Generale statunitense nella battaglia di Bastogne; l’uomo davanti al carrarmato che ricorda il ragazzo di piazza Tien An Men; persino Chernobyl conquistata sembra un rimando alla bellissima serie HBO, e non una tappa obbligata dell’invasione dalla Bielorussia. Nel dramma trova persino spazio la comicità, con il cittadino ucraino che si offre di trainare il tank russo rimasto senza benzina o l’utilizzo del sarcasmo ironico di Zelensky che interviene dai suoi canali Twitter, rispondendo agli americani che gli offrono una via di fuga in Polonia: “non ho bisogno di un passaggio”; oppure al premier Draghi: “sposterò l’agenda della guerra”.

effetto collaterale

L’Isola dei Serpenti e Chernobyl come il cormorano imbevuto di petrolio e i pozzi che bruciano nel deserto iracheno più di 30 anni fa, ma con milioni di condivisioni social. E intanto il lettore/spettatore non ha idea di come stiano andando davvero le cose, segue il racconto della guerra e non la guerra vera, e vede la morte come una specie di effetto collaterale, con il distacco partecipato di chi sta seguendo una serie TV per poi spostarsi immediatamente sui social per commentarla.
La guerra nell’era di Netflix sembra avere bisogno di una narrazione seriale che tenga l’osservatore incollato allo schermo, poco importa se della Smart Tv o del cellulare o di entrambi. Non ha bisogno di conferme e verifiche, a meno di non utilizzarle a proprio uso e consumo. Ha bisogno di eroi e di villain, in modo che il pubblico possa schierarsi, possa scegliere chi supportare, possa vivere il dramma narrativo, ma lasciare la realtà a migliori intenti.

questioni minori

Come con diversi strumenti e diverse modalità avviene dalla guerra del Vietnam in poi, anche in questo caso si combatte una guerra di immagine che può influenzare quella sul terreno o, quantomeno, gli ambiti della diplomazia che la accompagnano. Ma questa immagine, come è già successo in parte nella narrazione della pandemia, tende a semplificare e polarizzare l’opinione pubblica, nell’illusione che tutti sappiano ciò di cui invece nulla sanno. La gente muore mentre c’è chi si accapiglia su questioni “minori”, su particolari del plot narrativo rievocando, nei commenti e solo ad esempio, la strage di Odessa o il battaglione Azov, come si trattasse del finale di Game of Thrones e non della realtà.
Persino chi cerca un articolo diverso, un reportage, prima di arrivarci viene confuso da migliaia di informazioni e storie che lo distraggono, un po’ come quando si cerca qualcosa da vedere sulla home di Netflix. Che vi sia la responsabilità anche di un nuovo modo di fare informazione che punta alla viralità più che al contenuto, all’emotività più che alla verità e, soprattutto, che costi poco, è sicuramente una possibilità e un tema su cui il mondo dell’informazione dovrebbe discutere.

Il vecchio adagio “la prima vittima della guerra è l’informazione” assume così oggi una ulteriore nuova sfumatura e il lettore/spettatore non sa se indignarsi o cliccare sul cuoricino in basso a destra, in modo che al prossimo accesso gli vengano segnalati contenuti più adatti ai suoi gusti. 

(nella foto, la ragazza col fucile sull’autobus)

LASCIA UN COMMENTO