di ALBERTO FERRIGOLO

Tira una brutta aria nelle redazioni. Tanto lavoro e scarsa discussione. Testa china e poche chiacchiere. Tra colleghi, ma anche con i vertici giornalistici. E nel rapporto con le proprietà. Come se vi fosse un perenne clima di intimidazione. 

Ne risentono, in particolare, i Comitati di redazione, gli organismi di rappresentanza sindacale interna, che spesso non riescono a far sentire adeguatamente la propria voce e imporre un’agenda delle priorità sindacali. A impostare una risposta alle tante irregolarità nei rapporti interni, che si consumano con frequenza giornaliera. Tra comunicazioni e informazioni preventive non date, date male o date in ritardo dai direttori o dagli editori; palesi violazioni contrattuali, come ad esempio il divieto di pubblicazione dei comunicati sindacali; oppure candidati alle elezioni dei Cdr che non si trovano, perché nessuno vuole sostenere l’onere di un lavoro in più e spesso anche ingrato. 

quattro per cinque posti

L’anno scorso a La Stampa di Torino si erano raggiunti solo quattro candidati per cinque posti complessivi. Al Corriere della Sera solo pochi mesi fa nessuno sembrava disponibile a candidarsi. Non mancano poi i direttori che vengono sfiduciati per motivi diversi, dalla gestione dei piani o dell’organizzazione del lavoro, al varo degli organigrammi interni, fino alla denuncia di scarsa democrazia. 

Nella crisi dei Cdr, si aggiunge una sostanziale mancanza di autorevolezza, perché la generazione dei più giovani non sembra talvolta all’altezza della situazione e dei compiti. Specie nel confronto diretto con gli editori, da tempo molto aggressivi, che non vanno tanto per il sottile e ai quali è difficile tenere testa. “Per fare il Cdr ci vuole carattere”, è l’espressione e l’obiezione più frequente in cui ci s’imbatte.

timidezza e paura

Insomma, spesso prevale un riflesso autocensorio. Timidezza e paura rispetto a ciò che si può chiedere e rivendicare. Prendiamo il caso di la Repubblica Torino dove c’è in ballo la sostituzione dei prepensionati, numeri stabiliti per altro dalla normativa: escono tot e ne entrano la metà. Bene, i prepensionati sono già usciti, ma i sostituti che dovrebbero entrare non sono ancora arrivati. Motivo? Elkann non sembra avere intenzione di stabilizzare i collaboratori storici. Non mancano in proposito le illazioni, dovute al fatto che la situazione di Repubblica Torino appare incerta: chiude, non chiude?, si domandano in molti. Su piazza c’è già La Stampa, che è egemone, ha senso tenere due cronache per due giornali dello stesso gruppo, Gedi? Ma c’è chi attribuisce invece la responsabilità delle mancate stabilizzazioni alla direzione del giornale, che vorrebbe avere maggiore mano libera nella gestione delle assunzioni. Alcuni collaboratori sono tuttavia stati regolarizzati, ma altrove, non a Torino. Ebbene, su un episodio del genere, che è un classico di cui si dovrebbe occupare il Comitato di redazione “perché i patti erano questi”, non c’è stato un grande conflitto o una trattativa serrata. Insomma, l’episodio di Torino viene additato come sintomatico della difficoltà del Cdr ad avere un posizione decisa con il direttore dicendogli: una parte delle assunzioni è prerogativa tua, ma per il resto si attinge dai serbatoi naturali, dalle graduatorie delle priorità e dei diritti. Il risultato è una situazione di stallo. Anche se il 27 gennaio il Cdr ha dovuto proclamare lo stato di agitazione generale, che coinvolge tutte le redazioni, dalla centrale a Roma alle sedi periferiche, per raggiunto limite di sostenibilità della situazione interna. 

tetto massimo 

Poi c’è il caso del quotidiano di provincia del Nord, non lontano da Milano, in stato di agitazione per una trattativa in corso con la proprietà sia sull’integrativo che sull’organizzazione del lavoro. Il direttore è stato sfiduciato, mentre il Cdr ha scelto la linea di non dare pubblicità all’esterno sull’avanzamento della vertenza quale atout da giocare nel rapporto con l’Azienda. Nella speranza, forse, che il buon comportamento possa portare dei vantaggi. Che non è proprio quel che si dice una trattativa sindacale.  

Mentre al Gazzettino di Venezia, gruppo Caltagirone, quest’estate d’improvviso l’editore ha fissato un tetto massimo di numero di articoli che ciascun collaboratore può raggiungere, dopo i quali non può più essere utilizzato dal caporedattore o dal caposervizio di turno. Forse un tentativo di controllare le spese, di non sforare i budget, ma il limite imposto all’utilizzo dei collaboratori ha messo in crisi le cronache, che spesso non sono riuscite a coprire in modo adeguato gli avvenimenti, con contraccolpi sulla qualità del prodotto, tutto a vantaggio delle testate concorrenti.

magra consolazione

Insomma, la situazione è complessa. Anche se c’è chi trova che non ci sia poi molto di che stupirsi se i Cdr sono in difficoltà. O silenti. Intimiditi e timidi. Perché è così da anni, con gli editori che fanno il bello e il brutto tempo. Che si fanno finanziare -grazie all’intervento di governi di ogni colore-  cassaintegrazione, prepensionamenti e ristrutturazioni con i soldi dell’Inpgi, che anche per questo è finito in un ammasso di debiti. Dal prossimo 1° luglio l’Inpgi finirà a carico dell’Inps, quindi del denaro dello Stato, perciò di tutti i contribuenti. 

A parziale scusante della crisi dei Cdr, viene addotta quella più generale degli organi di rappresentanza in tutti i settori. Ma è una magra consolazione. 

 

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