di MICHELE MEZZA

La crisi dell’informazione sempre più si dimostra una transizione, che ci sta conducendo in un mondo del tutto inedito, dove le figure degli editori, dei  giornalisti e dei lettori hanno perso i caratteri tradizionali che conoscevamo.

Su questo si discute animatamente, in una dovizia di convegni che si interrogano su dove andrà il giornalismo digitale.

Una scorciatoia per comprendere cosa accadrà, e forse sta già accadendo, come per molti altri temi, ci viene dall’esperienza americana. Comprare un biglietto aereo e andare a vedere cosa si profila oltre atlantico rimane il modo più sicuro per afferrare le tendenze del nostro futuro.

stele di rosetta

Una buona alternativa al viaggio americano, ci viene da un testo che è molto più di un libro di successo, quale Mercanti di verità, la grande guerra dell’informazione (Sellerio, 2021), scritto da Jill Abramson, la prima donna chiamata a dirigere il New York Times, nel 2011, dopo essere stata al vertice delle principali testate e siti di web journalism degli USA. 

Si tratta di un vero navigatore nella storia recente, con mappe documentate sul futuro più immediato dell’intero comparto dell’informazione globale.

Qualcosa che equivale alla stele di Rosetta, il celebre reperto, scoperta nel 1799 dal capitano napoleonico Pier-Francois Bouchard in Egitto, che permise di tradurre i geroglifici delle piramidi, ponendo fine a lunghe disquisizioni e parapiglia dei dottissimi esperti della materia.

ogni singolo utente

Il libro della Abramson, un tomo di circa 800 pagine di dettagliatissime cronistorie della vita di quattro grandi redazioni americane (New York Times, Washington Post, Buzzfeed, Vice) negli ultimi 20 anni, documenta con precisione e circostanziate testimonianze, proprio le fasi in cui l’apparato giornalistico più potente e simbolico del pianeta cambia pelle e avvia la cosidetta mediamorfosi, che ha mutato i tratti genetici di giornali e giornalisti.

Tre sono i momenti topici che  vengono inquadrati ed analizzati, attraverso la vita concreta delle redazioni: la crisi, che arriva al suo diapason nel 2007, anno in cui due giganti del giornalismo a stelle e strisce, quali il New York Times e il Washington Post, si trovano sull’orlo del fallimento, con bilanci fuori controllo e soprattutto un’incapacità a  vivere l’attualità della transizione digitale; la ripresa, nel 2011, con la sfida aperta  alle piattaforme digitali; e l’automatizzazione, nel 2016, con l’adozione di sistemi di intelligenza artificiale che individualizzano la relazione della testata con ognuno dei propri singoli utenti.

nei salotti buoni

Contemporaneamente crescono accanto alle testate tradizionali realtà, come appunto Buzzfeed e Vice, che riformulano sia culturalmente che organizzativamente l’idea di giornalismo, introducendo modelli e comportamenti del tutto inediti nei salotti buoni dell’informazione.

In controluce, sempre con il taglio della testimonianza diretta sul campo, possiamo anche assistere all’avvento e al dominio dei service provider, come Google e Facebook, che conquistano il centro della scena, imponendo la centralità della distribuzione sul valore della produzione nell’informazione. 

Una distribuzione -questo è un altro punto nevralgico decifrabile attraverso la “stele di Jill”- che diventa individuale, profilata, predittiva: ogni notizia viene recapitata ad un utente diverso, con contesti, chiavi di letture e concatenazione informativa del tutto differente da gli altri miliardi di utenti. In questo modo l’informazione diventa esclusivamente funzione gestibile attraverso sistemi di calcolo e processamenti di dati. 

direttori impotenti

Un’attività che sfugge così ad ogni presidio professionale umano.

Ecco la narrazione degli anni bui del giornalismo dei Pulitzer- siamo attorno al 2005/2007 – in cui le versioni cartacee  rappresentavano circa l’80% dei ricavi dei gruppi che li editavano. I direttori assistono impotenti allo sgretolamento dei propri imperi: progressivamente  crollano diffusione in edicola, abbonamenti e, conseguentemente, la pubblicità. In pochi anni, dal 2005 al 2010 negli USA si bruciano il 60 % delle posizioni giornalistiche . 

Mentre crescono, per lo più in scantinati di qualche quartiere periferico, singolari realtà digitali, che appaiono del tutto irriducibili alla tradizione professionale del giornalismo. 

Buzzfeed, fin dal nome esprime l’ambizione di portare in rete il brusio del mondo. I leggendari gattini, che creano la prima aura di successo mondiale al sito sono solo l’emblema di una sofisticata e per nulla casuale strategia che mira ad accreditarsi come protesi della quotidianità di ogni utente, raccogliendone, e selezionandone, gli alluvionali contributi che fotografano lo stato d’animo di intere comunità.

attendibilità e viralità

Come spiega Thomas Peretti in una conversazione con l’autrice, “la forza di Buzzfeed è la sua onnipresenza non la sua autorevolezza “.

La rete, come emerge chiaramente dalle cronache del libro della Abramson, a differenza delle grandi testate non è un media, ma una protesi della vita, dove la credibilità di un contenuto è attribuita da chi ascolta e non da chi parla. Il sacro valore dell’attendibilità viene sostituito dalla viralità: la potenza di condividere con milioni di persone la stessa emozione crea una nuova economia politica della comunicazione.

Sotto la pressione del user genereted content, si riformula anche la grammatica professionale. Per completare l’offerta, rendendola sempre più attraente, bisogna integrare il brusio di base con focalizzazioni che stupiscano prima di informare.

pretesto per profilare

La forza di queste realtà digitali è la capacità di trasformare l’attenzione in conversazione e, successivamente in pubblicità nativa, ossia strutturalmente connessa con i contenuti personalizzati. 

Il big data diventa non più accessorio, ma fine ultimo della notizia: il contenuto non è più king ma puro pretesto per profilare, come aveva già spiegato Shoshanna Zuboff nel suo saggio” Il capitalismo della sorveglianza” ( Luiss, 2019), e che ora Jill Abramson materialmente ci mostrava all’opera.

Già Walter Benjamin nel suo celeberrimo saggio “L’opera d’arte all’epoca della riproducibilità tecnica”, intuì questo epilogo analizzando le prime rubriche di lettere al direttore che i quotidiani europei iniziavano a pubblicare negli anni 30: il lettore si siederà accanto al direttore, vaticinò allora il geniale precursore della scuola di Francoforte.

emozioni e ambizioni

In questa conversazione fra redazione e utente si irrobustisce un patrimonio di informazioni e impatti cognitivi che permette di mappare l’intera struttura neurale dell’utente: linguaggio, desideri, emozioni, predisposizioni, ambizioni, fobie. Una vera cartella clinica neurologica di ogni singolo lettore, che diventa patrimonio da commercializzare su diversi versanti, ben oltre l’editoria. 

Insieme ai dati, l’altro protagonista della rivoluzione digitale, come abbiamo visto con il successo di Vice, è il video. Le nuove redazioni digitali con sfrontatezza trasformano agevolmente il loro giornalismo basato sull’user experience in un palinsesto audiovisivo, in cui le immagini sostituiscono il testo. La qualità è sostituita dalla velocità. Proprio il carattere di giornalismo decentrato ed immersivo si presta ad un linguaggio emozionale  basato sul video. Le riprese dei telefonini sono la grammatica che spostano su smartphone la stragrande maggioranza del mercato comunicativo.

Le resistenze delle testate tradizionali vengono travolte dalla pubblicità, che impone il nuovo linguaggio nativo ed emozionale della rete.

flussi di dati

Si apre così un nuovo fronte: la redazione oltre che produrre, editare e postare video deve essere capace di provocare flussi di dati esplicativi e saperli leggere.

Jill Abramson, lungo questo crinale inciampa nell’allestimento di una strana macchina di persuasione digitale, in grado di campionare i profili dei suoi utenti. Siamo al cospetto di Cambridge Analytica, che nel 2014 cambia irrimediabilmente ogni modello di offerta culturale: se puoi sapere cosa desidera il tuo lettore allora non perdere tempo a interpretarlo.

Interessanti le pagine in cui viene descritto lo sbigottimento del gotha del giornalismo americano dinanzi a quella che inizialmente sembrava una fanfaronata o una magia: mappare in maniera granulare ogni singolo elettore, e dunque ogni singolo lettore o cliente, per poterne orientare le sensazioni e i comportamenti.

Si delinea in questo campo il primo discrimine etico che distingue, anche nel digitale, giornalisti da operatori della comunicazione: la trasparenza dei fini e la condivisibilità dei dispositivi intelligenti.

tempesta perfetta

Siamo nel pieno della tempesta perfetta: dopo il 2011, si consumano nel mercato tradizionale due passaggi epocali: l’unificazione delle redazioni analogiche e digitali, fino allora ancora separate, e l’abbattimento del muro, come lo definisce la Abramson, che divideva la direzione editoriale da quella del marketing e commerciale.

Cambiano le grammatiche professionali, gli strumenti del mestiere e, soprattutto, gli input del giornalista, che deve sempre più misurarsi sul target di riferimento di ogni sua informazione.

L’unificazione delle redazioni costa lacrime e sangue nei due salotti buoni del giornalismo americano: decine di prestigiosi giornalisti, inviati storici, opinionisti prestigiosi, conduttori popolari, vennero pensionati e sostituiti da quelli che Bezos -che nel frattempo ha acquistato, salvandolo, il Washington post- chiama “gli ingegneri di redazione”.

marketing fondamentale

Si tratta di centinaia di giovanissimi operatori del web, che cambiano geneticamente la cultura redazionale, ratificando come il linguaggio prevalga sul contenuto, e il software sul linguaggio.

Al tempo stesso il marketing diventa un item fondamentale per la programmazione del lavoro. Non tanto per la selezione e l’adattamento delle notizie, quanto per la produzione di servizi e attività accessorie destinate a rendere sempre più profittevole il singolo lettore, che da utente diventa potenziale cliente di un centro servizi .

Si arriva così ai giorni nostri, all’ultimo stadio della mediamorfosi: l’automatizzazione dei sistemi di scrittura e di pubblicazione delle notizie.

In questo scenario le differenze iniziali fra le quattro testate svaniscono: Il New York Times è come Buzzfeed, e Il Washington Post come  Vice. Sono tutti  sistemi a caccia di dati, che poi trasformano in put per intelligenze artificiali, che guidano la diffusione dei contenuti.

come si muove l’occhio

Il libro ci spiega come il solenne desk dei grandi capo redattori centrali delle corazzate del giornalismo sia sostituito con sistemi come Chartbeat o Bandido, software intelligenti che programmano le pubblicazioni, elaborando testi capaci di catturare, in quello specifico momento della giornata, quella tipologia di utenti, per poi trascinarli su cataloghi di altri servizi da vendere. Questi software sono oggi in grado di misurare come si muova l’occhio fra le righe dei testi o nella composizione del video, per carpire quale siano immagini e contenuti capaci di catturare l’attenzione degli utenti.

In questa macchina del tempo lo spazio fra passato e futuro tende ad annullarsi. Molti dei fenomeni descritti spettacolarmente dalla Abramson sono già in atto, molecolarmente, nel nostro sistema editoriale. Come sempre, capire quali siano le forze e gli interessi che spingano per un epilogo apparentemente ineluttabile rimane la premessa per poter dare uno sbocco diverso al destino.

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