di ALBERTO FERRIGOLO

“Non c’è mai stato così bisogno di un’informazione professionale come oggi, ma altresì un’informazione professionale non è mai stata così arduo realizzarla come adesso. La domanda è alta, ma il contesto è molto difficile perché la debolezza dei gruppi editoriali e dei modelli di business rende i giornalisti molto soggetti alle pressioni più forti. Che non sono tanto della politica, ma quelle finanziarie. Della pubblicità, degli azionisti, dei conflitti d’interesse. Perciò, grande domanda, ma anche massima difficoltà”.

Inizia da un giudizio sul giornalismo in Italia la conversazione con Stefano Feltri, direttore di Domani, la vera novità editoriale quotidiana di questo ultimo anno, a cavallo tra 2020 e 2021. Giornale d’inchiesta aggressiva e di denuncia civile. Domani è giornale di informazione, di analisi su svariati temi e anche di lettura e approfondimento culturale. Unica testata che qualifica abitualmente chi scrive, facendo sapere chi sono e cosa fanno coloro i quali firmano gli articoli.

“Abbiamo fatto un anno di esperimenti e tentativi – racconta Feltri – con alcune cose molto buone e altre che non ci hanno soddisfatto e nel secondo anno puntiamo molto sulla costruzione della comunità, che è stata la cosa che ci ha dato maggiore soddisfazione, insieme alle inchieste, e sull’espansione digitale. Che è poi il motivo per cui abbiamo riportato internamente la gestione dei social, che avevamo affidato a una società esterna e abbiamo ingaggiato Selvaggia Lucarelli, che è una potenza di fuoco notevole. Noi crediamo molto nel crescere attraverso i contenuti e non attraverso scorciatoie. Quindi abbiamo fatto tutte scelte nella direzione di offrire contenuti buoni, ma coerenti con una strategia: vendere gli abbonamenti per la parte inchieste e offrire il gratuito che passa per Selvaggia, gli ‘spiegoni’ e tante altre cose che cerchiamo di diversificare”.

Ad un anno e poco più di vita, Domani dichiara 10 mila copie vendute in edicola e 15 mila abbonamenti sottoscritti.

Feltri, da ormai diversi decenni si parla di riforma dell’Ordine dei giornalisti, che di anni tra due ne fa 60. Alla luce delle trasformazioni anche tecnologiche della professione, come rispecchia questo mestiere l’Ordine? Ha ancora senso così com’è?

“Non sono un grande esperto di dinamiche interne all’Ordine, ma nella mia esperienza di quasi quindici anni di giornali posso dire che le uniche volte in cui l’Ordine dei giornalisti mi si è manifestato è nella sua forma di ostacolo. A Domani ci è capitato che sulla base delle lamentele di una persona citata in un articolo di Attilio Bolzoni, una persona potente, un ex agente dei servizi segreti, Bolzoni è stato convocato dall’Ordine dei giornalisti per spiegare perché ha raccontato delle cose già presenti in carte giudiziarie depositate, quindi non c’era niente di segreto. Ecco, nella mia esperienza l’Ordine dei giornalisti esprime soprattutto una forza di interdizione che ha creato problemi, non uno scudo, una difesa. Secondo me, in una fase così delicata, l’Ordine dovrebbe essere invece uno strumento che in qualche modo tutela la dignità del lavoro giornalistico e non contro la professione o chi non ha il tesserino. Dovrebbe tutelare contro le pressioni che arrivano ai giornalisti. Dovrebbe accadere, per esempio, che quando a un giornalista viene chiesto di fare un ‘marchetta’ ignobile, dovrebbe essere messo in grado di dire ‘no, non la faccio altrimenti mi sospendono dall’Ordine’. Allora sì, a quel punto, sarebbe utile l’Ordine, perché servirebbe a dare a chi non ha il potere contrattuale sufficiente la forza per potersi sottrarre e dire di no. Il sindacato lo fa su basi contrattuali, sulla dimensione sindacal-negoziale della trattativa, l’Ordine dovrebbe farlo proprio su quello della dignità della professione. Invece mi sembra che si attivi su minuzie e non su cose serie”. 

Per esempio?

“Noi siamo addirittura stati criticati dall’Ordine dei giornalisti per aver diffuso i video del pestaggio dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, la trovo quantomeno una bizzarria”. 

Dalla nascita dell’Ordine, nel ’63, le figure professionali sono cresciute a dismisura con competenze tecniche anche particolari che marcano sostanziali differenze generazionali. Come dovrebbe comportarsi l’Ordine nei loro confronti? C’è sempre la distinzione professionisti-pubblicisti, ha ancora senso quando poi molto spesso questi ultimi vengono usati all’interno di mansioni professionali vere e proprie?

“Quella tra pubblicisti e professionisti mi sembra una differenza che ha senso solo nella misura in cui gli uni svolgono lavoro giornalistico occasionale e gli altri svolgono lavoro giornalistico come unica o prevalente fonte di reddito. Faccio il classico caso della professoressa di liceo che scrive recensioni di teatro una volta al mese, che non può essere equiparato alla figura professionale di chi fa l’inviato di guerra o a quello di chi fa le inchieste e rischia querele milionarie ogni volta”. 

Ma tu sai che ormai i pubblicisti vengono regolarmente usati anche per svolgere un lavoro professionale e redazionale interno.

“Certo, nel momento in cui la differenza tra un giornalista professionista e chi è pubblicista si assottiglia o svapora, semplicemente perché spesso un pubblicista è un giornalista professionista che viene tenuto per ragioni di potere contrattuale nel limbo della precarietà assoluta, pagato a pezzo, allora non ha più molto senso trattarli in maniera così diversa. Lo stesso vale per i giornali e il mondo dei media, dove c’è gente che fa informazione senza avere la qualifica di giornalista. Ma, sia consentito dirlo, c’è anche molta gente che ha pure la qualifica di giornalista e non fa informazione, perché magari è un ingranaggio dentro una macchina con decine e decine di persone e il suo lavoro giornalistico è più amministrativo-gestionale che strettamente informativo. Mentre persone che lavorano con i dati, si occupano di newsletter o gestiscono i social fanno un lavoro molto più giornalistico di chi passa o corregge il titolo delle brevi in un grande giornale”.

Ritieni che questa doppia specificità dovrebbe essere marcata di più o così com’è già concepita dall’Ordine è funzionale e va bene? 

“Se devo essere sincero trovo che la struttura attuale si ferma agli anni Settanta del Novecento. Nel senso che la domanda dovrebbe essere semmai: cosa dovrebbe fare l’Ordine? Se deve regolamentare l’accesso alla professione per garantire certi standard, oppure garantire certi privilegi corporativi, mi sembra che in entrambi i casi sia un lavoro non più necessario perché ormai c’è così poca domanda di giornalisti da parte delle aziende editoriali. Le stesse scuole di giornalismo oggi faticano a riempire i loro corsi biennali perché, giustamente, la gente pensa e vuole fare altro. Quindi questo lavoro dell’Ordine non serve più mentre, semmai, serve molto, come accennavo prima, tutelare la dignità della professione e offrire una forma di scudo collettivo a chi fa informazione a livello individuale”.

Una tutela erga omnes?

“Certo, non deve valere solo per chi ha un contratto articolo 1 o articolo 3, deve valere  per chi fa informazione. Cioè una delle testate più dinamiche del panorama italiano è Will, che esiste solo su Instagram, non è una testata giornalistica e le persone che lavorano lì dentro non sono giornalisti. Ma, mi chiedo, qual è la differenza tra il lavoro che fanno loro e quello che fanno i social media manager o le persone che lavorano su Instagram dentro una redazione giornalistica? Non c’è. Allora, questa è una questione su cui l’Ordine dovrebbe ragionare tutti i giorni, a tutela degli iscritti, ma anche della qualità dell’informazione. Perché se tutti fanno informazione, ma solo una parte delle persone ha un qualifica questo è un problema per tutti”. 

Quale direzione dovrebbe prendere il giornalismo professionale?

“È una domanda complicata, ma in estrema sintesi direi questo: prendere atto che è cambiata la domanda di informazione, quindi deve cambiare l’offerta. È cambiata la domanda, nel senso che le persone con un livello culturale medio basso non s’informano più attraverso i giornali, ammesso che l’abbiano mai fatto, cioè non comprano più i giornali per sapere come sono andate le partite o per leggere i programmi televisivi o l’oroscopo. Tutto questo ormai è online. I giornali sono un prodotto che si è spostato nella parte più alta della fetta dei consumi culturali, ma spesso i giornalisti che producono i giornali ne sanno meno delle persone che sono rimaste a leggerli. Quindi ci vuole un grande salto di qualità, che non vuol più dire la bella scrittura o solo la capacità analitica. Non ci si può più informare sulle cose leggendo i reportage di Giorgio Bocca sul Vajont, per dire, perché quella era un’altra fase storica che richiedeva un’altra professionalità, altre competenze, giustamente. Bocca andava a raccontare il Vajont ed era l’unico che era lì, quindi serviva la capacità di portare il lettore sul posto, di fargli sentire l’emozione. Oggi il Giorgio Bocca che andasse sul luogo di una catastrofe, diciamo ‘naturale’, dovrebbe saper montare un video, saper fare i tweet, raccontare una storia su Instagram, saper scrivere, certo, ma in un modo che va oltre il racconto dell’immagine, perché l’immagine c’è già. Queste sono tutte competenze diverse, che si intersecano sempre di più con competenze tecnologiche e analitiche, dove non c’è più soltanto saper leggere un documento o avere una fonte buona, ma si deve saper leggere il dato, conoscere la disciplina. È una professione di cui c’è un gran bisogno, ma spesso le persone che la praticano non hanno le competenze adeguate per offrire un di più di conoscenza a chi beneficia del prodotto finale”. 

È di questo genere di giornalismo e di giornalisti che ha bisogno una democrazia avanzata? 

“Per me l’esempio è la pandemia. Il giornalista di ieri il massimo che può fare è intervistare un virologo. È la cosa classica, uno lo sa fare meglio, un altro meno bene, conosce il ritmo dell’intervista, la può fare più o meno spiritosa, è capace di tirarci fuori un titolo forte che è ‘La quarta dose serve o non serve?’. Ma quel tipo di informazione aumenta soltanto la confusione ed è parte della ragione per cui la gente dice che ‘ognuno dice la sua e non si capisce più niente’. Il giornalista contemporaneo è quello che conosce e sa leggere la letteratura scientifica, la sa tradurre e spiegare, sa dire a che punto siamo nel dibattito sulla terza dose e sulla quarta, senza dover fare solo il reggimicrofono di un virologo. Questo vale per la pandemia, dove abbiamo visto in maniera clamorosa da cosa dipendeva la vita o la morte della gente, ma vale in economia dove non ha più senso fare il giornalista che mette il microfono sotto il presidente di Confindustria o sotto il banchiere e gli fa dire due cose sul fatto che bisogna ridurre la burocrazia. Ma vale anche in campo scientifico, così come in campo politico, dove un’informazione di qualità deve tenere conto anche dei dati”.

Ti riferisci al giornalismo dei Big data?

“Il giornalismo dei Big data è un passo avanti ancora. Non pretendo che tutti i giornalisti sappiano fare ‘coding’ o sappiano usare ‘machine learning’ per vedere se su internet stanno prevalendo i no vax, analizzando il sentiment di Twitter e così via in maniera autonoma. Non lo pretendo e non ha neanche senso che lo facciano i giornalisti, ma non può essere che un giornalista non sappia o non conosca quelle dinamiche. Un sacco di gente ha raccontato la Bestia di Salvini pensando che la Bestia fosse Salvini che mette dei post su Instagram, mentre si trattava di una macchina, un sistema che pochi giornalisti erano in grado di raccontare, perché solo pochi tra loro avevano le cognizioni di base per capirla o per capire che non la conoscevano affatto. Quindi oggi bisogna andare oltre l’approccio meramente descrittivo perché per quello sono capaci tutti oramai. La domanda è sempre: qual è il valore aggiunto che ci mette il giornalista? E il valore aggiunto può essere o  scoprire una cosa che non si sapeva, rivalere uno scandalo, un documento o altro ancora, oppure capire e spiegare una cosa che non era né capita né spiegata. Se il giornalista non fa nessuna di queste due cose è irrilevante”. 

Qual è l’etica del giornalismo?

“Non ho mai creduto al mito dell’imparzialità. Il giornalismo è prima di tutto selezione, su cosa mettere in pagina e a che cosa dedicare il nostro tempo. Se dedico il mio tempo a contare il numero dei reati commessi da immigrati, sto facendo una scelta molto netta, che non è certo imparziale; e se dedico il mio tempo a occuparmi delle storie di povertà o degli abusi sul reddito di cittadinanza, sto facendo una scelta anch’essa non assolutamente imparziale. Il giornalismo è sempre un punto di vista ed è una selezione tra tutto quello che succede nel mondo, per interpretarlo. È una selezione di priorità. Dopo di che si tratta di essere più o meno onesti intellettualmente. Anche chi sceglie un certo punto di vista, come cerchiamo di fare noi a Domani, se è intellettualmente onesto, dà conto della prospettiva dell’altra parte, dà spazio a tutte le persone coinvolte. Quindi, per venire alla domanda, l’etica è prima di tutto onestà intellettuale e, in seconda battuta, è tecnica. E ci sono delle cose che bisogna saperle fare perché sono delicate…”.

Ad esempio?

“Non si mettono in difficoltà persone che non lo meritano, non si prendono di petto i poveracci. Il tizio che va a farsi il vaccino con il braccio finto è sì divertente, ma non può meritare lo stesso trattamento di chi come un santone va a dire in televisione che i vaccini non servono. Tra Cacciari che va in tv a creare confusione sul vaccino e il no vax con il braccio finto, è chiaro il braccio finto è una breve divertente di cronaca, mentre Cacciari è un problema serio, perché dice cose molto gravi. L’etica giornalistica consiste nel distinguere tra queste due cose e nel trattarle diversamente”.

Qual è allora la missione del giornalismo?

“È migliorare la qualità del dibattito pubblico. Noi non siamo un potere, siamo un contropotere. Quindi dobbiamo impedire che chi è al potere possa usare il suo potere per condizionare il dibattito pubblico a suo piacimento. La democrazia è tale solo se è fatta di persone informate e il potere non ha certo interesse a informarle, ma a fare propaganda. E dobbiamo mettere i cittadini in condizione di avere gli strumenti per gestire la propria vita in maniera più consapevole. Il che vuol dire intrattenere, dire se a volte un film è bello oppure brutto, oppure di andare a vedere Clint Eastwood o Paolo Sorrentino. Più spesso consiste nel dire ‘voi fate la vostra vita che di certe cose ce ne occupiamo noi’, cioè andare a controllare se nel Pnrr ci sono soldi per far crescere l’Italia, oppure i valori di Borsa dell’Eni. Oppure, ancora, significa andiamo noi a capire se la letteratura scientifica dice che bisogna fare i vaccini ai bambini oppure no. Noi, quindi, te lo spieghiamo e tu ti puoi fidare, perché noi siamo arrivati alle nostre conclusioni seguendo un certo metodo che ti garantisce la migliore approssimazione alla verità che si può raggiungere. Nessuno ha la verità assoluta, ma se violi le regole del metodo a quel punto non ci si può fidare”.

Quindi la missione del giornalismo è anche la ricerca delle verità?

“È la migliore approssimazione”.

Ma tutti i giornalisti cercano indistintamente ogni giorno la verità?

“Credo che molti giornalisti, non tutti, ogni giorno cerchino di raccontare le cose nella prospettiva che è la mediazione tra la loro individuale e quella richiesta dalla testata per cui lavorano. A volta questa cosa prende delle pieghe sbagliate, in cui si cerca di deformare quello che non è coerente con la tua narrazione, a volte prende prende delle pieghe virtuose in cui magari parti per fare un inchiesta con un’idea e torni con un’altra, perché hai scoperto che le cose stavano diversamente”. 

Un giornalista che cerca la verità è compatibile con il ruolo di addetto stampa, portavoce o persino deputato?

“Contemporaneamente no”.

Questo è sicuro. Ma succede sempre più frequentemente, anche a causa delle condizioni di lavoro o di mercato, che i giornalisti vadano a fare comunicazione istituzionale. È compatibile? Andrebbe regolato questo passaggio e come? 

“Sarebbe buona norma che se uno sceglie di andare a fare lavori di comunicazione istituzionale, se il diritto del lavoro glielo consente, poi non dovrebbe tornare ad occuparsi della stessa materia. Se fai il portavoce del ministero dell’Economia è brutto che poi torni alla redazione economica a scrivere pezzi sul ministero dell’Economia. Uno perché non è credibile, due perché è una forma di competizione sleale verso chi ha scelto di rimanere solo giornalista”. 

Sarebbe però una cosa di cui l’Ordine dovrebbe tenere conto? Una riforma da affrontare? 

“Non è che chi si mette in aspettativa per andare a lavorare per le persone di cui scrivono i suoi colleghi fa lo stesso lavoro di chi si mette in aspettativa perché vuole aprire un chiringuito sulla spiaggia. Anche perché sta diventando una prassi un po’ così…, per cui hai litigato con il direttore, non ti trovi a tuo agio, non vuoi stare nel piano dei tagli prospettati dalla direzione e dall’editore e allora vai a fare il portavoce di tizio o caio. È un fenomeno che in questi ultimi anni sta prendendo una piega notevole e quindi va in qualche modo regolato, ma su cui in ogni caso bisogna interrogarsi. Per poi capire qual è il punto di equilibrio che si vuole tenere e raggiungere. Di sicuro non è un bel segnale che un giornalista preferisca lavorare per la politica o per il potere anziché per un giornale. La dignità del lavoro in un giornale o nella testata è un po’ svilita”. 

Avresti però un’idea di una riforma che l’Ordine dovrebbe assolutamente affrontare?

“Una cosa secondo me a cui dovrebbe servire l’Ordine è questa: quando un giornalista si sente in difficoltà rispetto alla sua testata, alla sua professione o alla sua condizione può rivolgersi all’Ordine sentendo che l’Ordine sarà dalla sua parte e non da quella dell’editore o del direttore. Poi l’Ordine dovrebbe stigmatizzare le degenerazioni che sviliscono la professione per tutti. Per esempio, se l’Ordine dicesse: le pagine redazionali dei giornali che sono solo ignobili ‘marchette’ non le può firmare un iscritto all’Ordine dei giornalisti, ma lo fa un’altra figura, un responsabile del marketing, dell’azienda o altro. Secondo me andrebbe detto che questa cosa non sta bene, che un giornalista non fa certe cose, non firma la pubblicità. E se lo fa viene sospeso o gli viene fatto un richiamo. Non è proprio possibile che l’Ordine si occupi soltanto di Vittorio Feltri quando dice le parolacce, è una visione un po’ riduttiva”. 

La commistione tra pubblicità e giornalismo però è sempre più dirompente, ma al tempo stesso anche lampante. Nel senso che si vede e legge a occhio nudo.

“Nel momento in cui ci sono sempre meno lettori e gli inserzionisti si spostano online è chiaro che quelli che restano nel mondo dell’editoria si trovano ad avere molto più potere contrattuale. Del resto, non conosco alcun giornalista che sia contento di fare le ‘marchette’, però ci sono tanti contesti che, a vedere i giornali e i prodotti che escono, mettono in evidenza una commistione forte. Online, per esempio, questa commistione sta diventando strutturale, tant’è che ci sono siti che ormai offrono e presentano contenuti e sotto è evidenziato direttamente il bottone per comprare quello specifico prodotto. Queste cose dovrebbero interrogare i giornalisti e l’Ordine molto più che le parolacce di Vittorio Feltri. Non ho mai visto però un richiamo dell’Ordine sulla pubblicità. Ma se c’è stato me lo sono perso e mi scuso”.

(nella foto, Stefano Feltri)

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