Fanno un certo effetto le prime quattro pagine del più recente numero di “Robinson” (24 dicembre), l’inserto culturale della Repubblica, firmate (come tre quarti della copertina) dal direttore Maurizio Molinari e dedicate a un’intervista con il sociologo e filosofo francese Edgar Morin, che è sicuramente un “testimone del secolo”, e l’8 luglio ha compiuto appunto cent’anni, «Tanti auguri Europa». Undici domande e, ovviamente, altrettante risposte. E alla fine (la firma è all’inizio), una riga in corsivo: «Traduzione di Monica Rita Bedana e Fabio Galimberti». Ma cosa è successo: il direttore di Repubblica non conosce l’italiano, ed ha bisogno di farsi tradurre? Non credo, verrebbe da escluderlo. E allora?

L’intervista non è di quelle che talora (una pessima prassi) vengono effettuate inviando a un interlocutore delle domande, spesso slegate tra loro e scarsamente consequenziali l’una all’altra: qui, il discorso fila bene, un dialogo sembra proprio esserci stato. Anche perché l’intervistatore ringrazia l’intervistato per il «suo modo di sorridere»: se l’ha apprezzato, deve averlo visto. Non descrive il luogo in cui si è svolta la chiacchierata, forse perché lo schermo di un computer non ha bisogno di descrizioni, ma, insomma, si sono parlati. Si può escludere che, per conversare con Morin, a Molinari servisse un traduttore simultaneo: non si può far torto alla conoscenza delle lingue di chi è stato corrispondente di importanti giornali in tante grandi capitali del mondo. Alla fine dell’articolo, tuttavia, c’è la firma di non uno, ma due traduttori: chi lo fa, per il giornale, abitualmente dal francese, e chi, a Torino, dirige la scuola in Italia dell’Università di Salamanca (ma che cosa c’entra lo spagnolo? Boh: non mettiamo troppa carne, e troppi dubbi, sul fuoco). E allora?

Possiamo forse immaginare che cosa è successo. Appuntamento tra i due per un’intervista in videochiamata. Il direttore registra la conversazione, presumibilmente in francese. Poi però non si prende pena di sbobinare (è sempre una grande fatica), e consegna ai due traduttori (uno solo non bastava?) il risultato della chiacchierata, che questi provvederanno a rendere nella lingua di Dante. Insomma, soltanto la (nobile) fatica di parlarsi, e non anche quella (più stancante) di scriverne.

Quando ero giovane, avevo imparato che in un feroce epigramma Ugo Foscolo si beffava di Vincenzo Monti: «Questi è Monti poeta e cavaliero, gran traduttor dei traduttor d’Omero». Forse, in questo caso, si potrebbe parafrasare con «il traduttor dei traduttor di Maurizio» (o di Edgar?). Ma anche con un «traduttor dei traduttor di Oh mero», nel senso di soltanto: i direttori, si sa, sono assai impegnati, e non devono sottoporsi a troppi sforzi; una bobina e via, altri di sicuro trascriverà, basta una firma, o anzi due, in calce all’articolo.

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