di VITTORIO ROIDI

Fra qualche settimana i giornalisti andranno a votare. Dovranno eleggere i propri rappresentanti all’interno dei Consigli degli Ordini regionali (nei quali ciascuno è iscritto) e di quello nazionale, che regola l’accesso agli Albi e controlla il rispetto delle norme deontologiche in sede di appello.

Per la prima volta, grazie all’elettronica, si potrà votare anche a distanza. Ciò dovrebbe favorire la partecipazione alla consultazione, che in passato ha visto andare alle urne un numero non proprio entusiasmante di colleghi.

Non c’è dibattito, finora. Nessuno ne parla. Eppure sarebbe necessaria un’analisi approfondita su come si svolge l’attività di professionisti e pubblicisti, sulla funzione svolta dagli Ordini, sulla possibilità che si arrivi a una riforma profonda del nostro giornalismo. Riforma, parola astratta che molti invocano senza spiegare cosa in concreto dovrebbe contenere. Un contributo potrebbero darlo quei colleghi che chiederanno di essere votati. Vogliono essere eletti per fare cosa? Per amministrare l’esistente o intendono spingere l’organismo professionale su strade nuove e chiedere al legislatore di cambiare la vecchia legge? Alla discussione dovrebbero prendere parte anche rappresentanti della cultura e dell’accademia, dei partiti e della società civile, poiché l’informazione è un bene delicato che deve stare a cuore all’intera collettività. Non spetta ai soli giornalisti fare proposte, ma sarebbe logico aspettarsele da quelli che chiedono di essere eletti nei loro organi di rappresentanza, all’interno dei quali, peraltro, non troveranno grandi margini di manovra. Perché è la legge che si deve cambiare.

Qualcuno ha proposte da fare? E quali? Si mettano sul tavolo e si cerchi di sensibilizzare la classe politica cui spetterà elaborare e approvare una vera riforma. Dal 1963 sembra passato un millennio. Il tramonto della carta stampata, le innovazioni legate alla rete web, la crisi delle aziende editoriali, l’invasione dei social network impongono interventi rapidi per salvare le strutture giornalistiche, stroncare il precariato e garantire ai cittadini un’informazione di qualità. Le domande potrebbero essere molte. In testa all’elenco mettiamo per ora almeno queste tre:

– regge ancora la distinzione fra professionisti e pubblicisti? In che modo potranno entrare negli albi quelle migliaia di persone che lavorano nel pianeta di Internet, delle immagini, dei social e del fai-da-te, e incarnano figure nuove, fino a qualche anno fa inesistenti e impensabili? Oppure qualcuno pensa di ignorarle e lasciarle ai margini di un giornalismo che crede di avere la G maiuscola ma rischia invece di scomparire?

– L’accesso alla professione. La legge aveva affidato agli editori la formazione dei giovani, ma le assunzioni nelle imprese sono rarissime e le dodici scuole esistenti coprono solo una parte della penisola. Quale modello va seguito per garantire in tutta Italia l’ingresso in professione e una preparazione alta e completa ?

  L’etica. Il servizio di informare correttamente i cittadini e di tenere sotto i riflettori gli organi che governano e gestiscono la cosa pubblica, questo è il fondamento etico che la collettività intende porre a base del lavoro dei giornalisti? Questo è l’obiettivo? Questo si vuole da un giornalismo di qualità?

E’ il tempo giusto per discutere, ascoltare voci, contribuire a individuare soluzioni. Professione reporter – al di fuori dalla contesa elettorale che si svolgerà in ottobre – contribuirà con articoli e interviste all’analisi di un problema che costituisce un tassello rilevante della vita democratica.

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