di ALESSANDRO TROCINO

Sasà: “Visto quanto è bravo il cane mio? Fa il cane e io faccio il padrone. Io sono il padrone del cane… e così è pure con gli uomini, Giancarlo, ci stanno i cani e ci stanno i padroni. Tu vuoi fare il cane o il padrone?”

Giancarlo: “Nessuno dei due, io voglio fare il giornalista.”

Sasà: “E lo sapevo che mi dicevi questo! E magari vuoi fare pure il giornalista giornalista, no? No, perché anche qua ci stanno due categorie: ci stanno i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati. Io in verità ho scelto la seconda categoria e devo dire che non mi trovo male. Sì, tengo la macchina, tengo la casa, tengo l’assistente sanitaria e tengo pure il cane… perché i giornalisti giornalisti sono tutta un’altra cosa, Giancarlo.
Quelli portano le notizie, gli scoop e non sempre si devono aspettare gli applausi della redazione. No, perché le notizie e gli scoop sono una rottura di cazzo… fanno male, fanno malissimo e allora, se ti posso dare un consiglio, stai a sentire Sasà: l’inchiesta che stai facendo, io non ne voglio sapere niente. Dai retta a me, questo non è un paese da giornalisti giornalisti, è un paese da giornalisti impiegati.”

sciacalli, schifosi

Sciacalli, schifosi, infami. La quasi totalità degli amici che lavorano nel mondo del cinema degli appassionati, alle prime notizie di cronaca sulla morte di Libero De Rienzo hanno reagito con rabbia, con indignazione. Un sentimento diffuso di sdegno, alimentato anche dall’amicizia con De Rienzo, con i familiari o gli attori e registi che hanno lavorato con lui. I commenti dei social hanno trovato una catalizzazione e un punto di condivisione in un articolo scritto dal critico cinematografico Boris Sollazzo sul Dubbio, giornale garantista per definizione.

Il sommario dice già molto delle tesi sostenute: “Dettagli minuziosissimi e scabrosi sulle ‘bustine’ e le ‘polveri’ manco parlassimo della serie ‘Narcos’: davvero non ci si poteva limitare a scrivere, dell’attore scomparso, che era un padre amorevole? E davvero è illegittimo il sospetto che tanti vogliano vendicarsi di Picchio e delle sue battaglie scomode – contro la violenza della polizia, il sistema penitenziario, la strategia repressiva dello Stato?”. Quello di Sollazzo è un j’accuse durissimo: “Sono un suo amico. E sono un giornalista. Conosco sua moglie, i suoi figli, molti suoi amici. E conosco pure i miei colleghi, molti direttori, troppi caporedattori. E so che l’attore di sinistra, duro e puro, trovato con della droga a casa è qualcosa di troppo goloso per l’aridità avida di una categoria che funziona ormai con i trend topic, il Seo, le ricerche su Google ma soprattutto con i titoli ad effetto, le fake news o solo il particolare scabroso. Mentre ridevamo dei tabloid, l’informazione italiana è diventata spazzatura e noi giornalisti non siamo neanche capaci di fare i netturbini, siamo quelli che la danno alle fiamme”.

da cani da guardia a topi

La requisitoria si allarga: “Con Libero De Rienzo facciamo un po’ schifo tutti. Anche i lettori, che cercano, vogliono, consumano questa spazzatura come fosse caviale. I caporedattori e i direttori che chiedono certi titoli, certe notizie, i colleghi che si sono dimenticati quanto e cosa hanno studiato per fare l’esame da professionisti”. La conclusione è apodittica: “Eravamo i cani da guardia della democrazia, ora siamo solo topi di fogna che si accontentano delle briciole, dei rifiuti, dei resti putrefatti del Potere”.

Difficile commentare. Perché il dolore per la morte del giovane attore è ancora forte e ogni considerazione può sembrare fuori posto o ferire. Eppure, parlare di questo caso è utile per capire il grado di insofferenza a cui è arrivata l’opinione pubblica, di destra e di sinistra, populista o garantista, verso un mestiere che sta cambiando. Viene citato spesso, in questi giorni, il brano del film “Fortapasc” che abbiamo riportato in testa a quest’articolo. Bello, bellissimo. Come il film. Chi ha cominciato a fare il giornalista in questi ultimi 30 anni si è nutrito anche dell’epica di Giancarlo Siani, coraggioso cronista abusivo contro la camorra e contro i giornali collusi o corrivi. Leggere il bellissimo libro “L’abusivo” di Antonio Franchini ci ha tolto un po’ di patina epica, perché la realtà è più complessa e ha più chiaroscuri di una bella storia che commuove. E anche le frasi ad effetto sono belle ma solo se non ci crediamo davvero. Perché di giornalisti-giornalisti, in quella logica, ce ne sarebbero proprio pochi. Giovani audaci che sfidano il potere e la morte. Eroi. Ce ne sono stati e ce ne sono, intendiamoci, e li ammiriamo tutti. Ma gli altri? Tutti impiegati? Tutti schiavi di un superiore? Oltre agli eroi e agli sciagurati, che non sono impiegati ma pericolosi mestieranti, ci sono i giornalisti, senza altre qualifiche. Quelli che fanno il loro lavoro con coscienza. Soprattutto quelli che maneggiano la cronaca nera. E che sanno che un aggettivo sbagliato, una frase scritta male, un sospetto buttato superficialmente possono fare male. Per fare bene la nera bisogna avere sensibilità, cultura, equilibrio.

non omettere né addolcire

Eppure c’è qualcosa di più che si chiede ai giornalisti, ai cronisti. Gli si chiede di non essere sgradevoli. Perché la realtà, spesso, lo è. È dura, feroce, impietosa. Gli si chiede di omettere, di addolcire. Gli si chiede un doppio standard: più affettuoso e sensibile con gli amici, con le persone per le quali si ha un sentimento di vicinanza, e più duri con gli altri, che spesso non si conoscono e non si vogliono conoscere. Sollazzo dice alcune verità. È vero. Ci sono giornalisti, come in ogni mestiere, che sbagliano, per incapacità o cattiveria. È vero. Ci sono giornali che lavorano in maniera estrema sugli algoritmi. La rete, con la sua bulimia di clic, è un’arma di ricatto ancora più forte di quanto non lo fossero le vendite in edicola di una volta.

L’onestà intellettuale di un cronista non si dà mai per acquisita. Non basta sentirsene portatori. Va verificata sul campo, caso per caso, articolo per articolo, parola per parola. Si è preteso, in questa vicenda, che non ci fossero accenni alla droga. Sollazzo commenta: “Non ci si poteva limitare a scrivere che era un padre amorevole?”. No, non si poteva. Perché ogni cronista di nera lo sa, non è quello il suo mestiere. Quello è il mestiere del critico, dell’editorialista, del giornalista che ha l’incombenza, tremenda e bellissima, di riassumere una vita in poche manciate di righe. Il cronista deve riportare le notizie, i fatti che lo diventano, trattati dalla sua competenza e capacità. Una persona è morta, a casa, da sola. È un attore. Tra l’ipotesi c’è un infarto. Ma è molto giovane e ha un passato da tossicodipendente. È stata trovata polvere che è possibile sia droga. È un sospetto, poi confermato (si trattava di eroina, anche se per la causa della morte bisognerà aspettare). È un’ipotesi investigativa. Non si deve scrivere che c’è una procura che indaga per “morte come conseguenza di altro reato”? Non si deve parlare di droga? Non si tratta di morbosità o pettegolezzi. Anche le ipotesi possono essere notizie.

la colpa e la vergogna

Sulla droga c’è un’altra considerazione da fare. Chi vorrebbe che non se ne scrivesse, che non si accennasse alla tossicodipendenza o all’uso saltuario di sostanze, accredita la tesi della droga come stigma. Come colpa da espiare. Come vergogna da nascondere. Ma la droga non è questo. Spesso è una maledizione, una condanna, una malattia. Come l’alcolismo, come altre forme di dipendenza. C’è una battuta nel film di Marco Bellocchio, “Marx può aspettare”, dove si ricorda una frase della madre, cattolicissima, dopo la morte per suicidio del fratello del regista, Camillo. Diceva più o meno così: “Una volta pensavo che era peccato, ma ora quando succedono certe cose, dico che lo capisco, che è giusto bere, perdersi”.

Si può discutere cosa sia una notizia. Cosa meriti di essere divulgato e cosa no. Ma forse quello su cui si dovrebbe discutere non è “se” le notizie meritino di essere riportate. Ma come. La continenza, l’equilibrio, la sensibilità dovrebbero essere un bagaglio comune, del cronista, del capo che titola e del social manager che fa il lancio. Non sempre è così. Facciamo tutti schifo? Siamo topi di fogna? Possiamo dirlo, se ci fa sentire meglio. Ma sarebbe ingiusto per i molti giornalisti, né giornalisti-giornalisti né giornalisti-impiegati. Solo giornalisti.

Quanto al fatto che la stampa volesse vendicarsi delle “battaglie scomode di Picchio”, beh, questa è una tesi complottista che non ha senso e decisamente offensiva, visto che immagina una stampa subalterna e in mano al “sistema repressivo dello Stato”. Chiedere un trattamento di favore per qualcuno, solo perché è amico, o di sinistra, o scomodo, questo sì, sarebbe ingiusto.

(dalla news letter “Il Punto”, del Corriere della Sera)

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