di ARNALDO LIGUORI

Ogni giorno, su internet, ci sono siti web italiani che pubblicano notizie come: “L’aglio può curare il Covid-19”, “Un gruppo finanziato da Bill Gates ha brevettato il coronavirus”. Oppure, “La tecnologia dei telefoni cellulari 5G è collegata alla pandemia”. Fra questi siti, i venti più seguiti su Facebook hanno complessivamente circa sei milioni di followers, che ne condividono le notizie false decine di migliaia di volte.

E’ quanto emerge da un’analisi condotta da Newsguard, una piattaforma internazionale che verifica l’affidabilità delle fonti d’informazione. I ricercatori hanno scoperto che i venti notiziari online – ognuno in diversa misura – diffondono ripetutamente notizie false o fuorvianti, non distinguono tra fatti e opinioni, pubblicano titoli ingannevoli e, spesso, omettono sia gli autori degli articoli che i responsabili del sito.

Le notizie false, insomma, sono diffuse, ben congegnate e senza volto. Per lo più, portano avanti narrative specifiche: enfatizzano la paura del virus o del lockdown, propagandano false cure per il Covid-19, oppure descrivono presunti complotti legati a case farmaceutiche e governi stranieri. Perché pubblicarle? Uno dei motivi è semplice: pubblicità. Tutti questi siti percepiscono guadagni dalle inserzioni pubblicitarie, alcuni chiedono persino donazioni.

ascesa e rischi

Nel 2020, internet ha sorpassato la televisione come fonte d’informazione più diffusa tra gli italiani: il 74 per cento dichiara di informarsi sul web ogni settimana, contro il 73 della tv (molti, ovviamente, usano entrambi). In breve, mentre il numero di lettori dei giornali diminuisce costantemente e quello dei telespettatori rimane piuttosto stabile, l’uso di smartphone e pc per ricevere notizie cresce giorno dopo giorno.

Il dato allarmante e paradossale, in tutto questo, è che nonostante quattro italiani su cinque affermino di non avere fiducia nelle notizie che leggono sui social media, metà di loro li utilizza comunque per informarsi. E lo fa praticamente ogni giorno.

Nell’indagare la disinformazione online, un sondaggio del Reuters institute for the Study of journalism ha rilevato che ad aprile, nel pieno della pandemia, quattro europei su dieci si sono imbattuti in notizie false riguardo al Covid-19 su Facebook, Twitter e Whatsapp.

Come se ciò non bastasse, secondo una ricerca della Royal society condotta ad ottobre in cinque Paesi, l’uso dei social è il fattore che più di ogni altro aumenta la probabilità di credere alle fake news sul coronavirus.

camere dell’eco

Nell’ultimo decennio, centinaia di studi hanno dimostrato che internet è l’ambiente ideale per la diffusione di notizie false. Secondo due tra gli studiosi più autorevoli in materia, Eli Pariser e Cass Sunstein, uno dei motivi principali è che le piattaforme come Facebook facilitano la nascita di gruppi con posizioni radicali o con la stessa visione del mondo. E questo avviene in due modi. Da una parte, i social permettono alle persone di scegliere cosa vedere e cosa non vedere (attraverso like, following e hashtag). Dall’altra, gli algoritmi registrano gli interessi e le preferenze degli utenti, mostrando loro soltanto contenuti in linea con le loro opinioni.

Il risultato è che sui social network gli individui trovano principalmente informazioni che confermano, e quindi rafforzano, le loro convinzioni. Questa sorta di “camera dell’eco” – sostengono i due studiosi – conduce le persone ad avere un approccio passivo e acritico nei confronti delle notizie, portandoli a credere più facilmente a quelle false o ingannevoli. Tutto ciò, inoltre, può anche dare loro un senso di falsa sicurezza sulla propria capacità di valutare le notizie stesse.

polarizzare la pandemia

All’interno di queste “bolle” online, gli individui che condividono fake news o hanno idee errate sulla pandemia entrano con facilità in contatto con quelli che la pensano come loro. Di fatto, è in questo modo che si sono radunati e organizzati i gruppi che negano l’esistenza del Covid-19 o ne minimizzano gli effetti.

Tale dinamica è stata rilevata da diverse fonti, tra cui il sopracitato studio della Royal society e un’indagine dell’Us national institute of health. In base a quest’ultimo studio, chi crede alle bufale tende anche ad essere più titubante verso i vaccini e meno propenso a seguire le misure di prevenzione (come portare la mascherina o evitare assembramenti). Ben inteso, queste persone non rappresentano la maggioranza della popolazione, ma sono una minoranza rumorosa che manifesta in piazza e sembra essere capace di attirare l’attenzione di politici e media.

cercando un “vaccino”

Per porre rimedio a ciò che l’Organizzazione mondiale della sanità ha definito «una pandemia della disinformazione online», i giornalisti sono fondamentali. Ma la scarsa fiducia che una parte del pubblico nutre nei confronti dei media e della stampa tradizionale compromette la loro capacità di combattere le fake news.

Secondo un’analisi realizzata dalle università di Bologna, Sassari e Urbino, a causa di questa sfiducia «alcuni cittadini rifiutano sistematicamente le notizie diffuse dai media mainstream considerandole a priori false o falsificate», mentre le fonti che «si definiscono esplicitamente “alternative” ricevono attenzione e credito».

Neanche il “debunking” riesce ad arginare il problema. Soprattutto perché spesso le notizie che smascherano le bufale hanno pochissima diffusione rispetto alle bufale stesse.

In tutto questo, Facebook ha reagito chiudendo alcune pagine di disinformazione. Tuttavia, dato che molti siti di fake news pubblicano anche contenuti veritieri, questa forma di “censura” è difficilmente applicabile su larga scala. Senza contare, poi, i problemi di ordine etico riguardo la neutralità di internet e la libertà di stampa. Questioni sulle quali, ancora, infuria il dibattito.

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