Il Bologna calcio aveva chiesto, querelando il quotidiano La Repubblica per diffamazione, un milione di euro da devolvere ad un’associazione benefica.

E’ stato invece condannato in primo grado a pagare una cifra di poco inferiore ai quarantamila euro, spese legali comprese.
La vicenda risale all’estate del 2017, quando in alcuni articoli un giornalista della redazione bolognese del quotidiano, Simone Monari, che già negli anni ’90 portò alla luce un illecito sportivo nel basket costato 6 punti di penalizzazione alla Fortitudo, aveva posto l’attenzione su alcune vicende delicate della società rossoblù, scatenandone la reazione.

tre filoni

Tre, in estrema sintesi, gli argomenti. Un presunto conflitto d’interessi che riguardava due consiglieri d’amministrazione e un professionista membro del collegio sindacale riconducibili in qualche modo ad un’azienda che aveva una consulenza con il club. Nulla di illecito, ma non in linea con il Codice etico che il club aveva promosso negli anni ’90 e che sosteneva che “tutti i soci, dipendenti e collaboratori sono tenuti ad evitare conflitti di interesse fra le attività economiche personali e familiari e le mansioni che ricoprono all’interno della struttura di appartenenza”.  Il secondo filone riguardava l’esistenza di possibili falle nella struttura di controllo del marketing, visto che circolavano voci di aziende che avevano potuto pubblicizzare le loro attività senza il regolare iter di contrattualizzazione. Il Bologna in una nota, pur difendendo il proprio operato e aggiungendo che i due consiglieri citati valutavano l’ipotesi delle vie legali, ammise che esisteva una mancata fatturazione, sebbene per una cifra minima di 3 mila euro.

Nella sentenza emessa lo scorso 3 luglio il giudice Cinzia Gamberini, della terza sezione civile del Tribunale di Bologna, scrive che “il giornalismo non si connota soltanto per la mera esposizione di fatti, cosa che costituisce la base del diritto di cronaca, potendo bensì essere volto anche al ‘commento’, all’elaborazione di notizie da parte del giornalista, con ciò esercitando il diritto di critica”. E ancora, riferendosi al giornalismo d’inchiesta: “Questa modalità di fare giornalismo non è nuova alla giurisprudenza nostrana, che la indica come l’espressione più alta e nobile dell’attività di informazione”.

notizie rilevanti e vere

Nel merito poi il giudice sottolinea come Repubblica “abbia condotto un’indagine che ha portato alla luce notizie rilevanti e vere, altrimenti non conosciute né conoscibili dal pubblico di tifosi e dei contatti commerciali del Bologna. Una vera e propria inchiesta su aspetti poco chiari della società calcistica e della sua dirigenza e di indubbio interesse per la platea dei tifosi rossoblù”. E sostiene che “possono dirsi ragionevoli i sospetti sulla sussistenza di potenziali conflitti d’interesse e sussistente la lamentata carenza di trasparenza da parte del club”.
Il terzo filone riguardava i compensi che il club aveva pagato e che si impegnava a versare negli anni a venire ai procuratori di alcuni giocatori, cifre ritenute in alcuni casi un po’ esose. Il club reagì prima con un durissimo comunicato stampa poi con una conferenza pubblica per smentire, “carte alla mano”, la veridicità di queste cifre, spiegando che esse erano subordinate ad una serie di parametri (le presenze in campo, eccetera).  Il giudice scrive che per il Bologna queste cifre erano false, ma poi nota che “gli importi riportati ammontano effettivamente a quelli stipulati nei contratti”. E poche righe dopo aggiunge: “A ben vedere gli odierni attori – cioè il Bologna ndr – non hanno prodotto né un bilancio o altri documenti contabili né delle quietanze né delle fatture che indichino con precisione quanto è stato poi effettivamente pagato ai procuratori”.
Professione Reporter
(nella foto, Claudio Fenucci, ad del Bologna calcio e Joey Saputo, presidente)

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