(A.G.) La notizia è piccola. O sembra tale.

Nederlandse Publieke Omroep -diciamo la Bbc olandese- si ribella alla dittatura del secolo, quella dei cookies. Si ribella al meccanismo che ogni giorno, varie volte al giorno, tutti accettiamo pur di non perdere tempo, quando diciamo ok ai cookies e andiamo avanti spediti con la navigazione in internet. Accettiamo i cookies e quindi, senza pensarci troppo, accettiamo che vengano memorizzati i nostri dati, chi siamo, cosa visitiamo in rete, cosa compriamo o cosa vorremmo comprare. Accettiamo di essere profilati, per usare una parola di questi tempi. Diamo modo così di essere bersagliati da avvisi pubblicitari mirati a venderci ciò che desideriamo (e talvolta ancora neanche sappiamo di desiderare). I cookies possono essere di prima parte, cioè gestiti dal sito dove vi trovate o di terza parte, cioè gestiti dal motore di ricerca (come Google) che avete utilizzato per andare sul sito

Tutta questa storia l’ha raccontata la rivista Wired all’inizio dell’estate. Con il titolo: “Uccidere i cookies può salvare il giornalismo?”.

Comincia dal maggio 2018, quando l’Unione Europea vara il Gdpr, la legge che protegge i dati personali, la privacy. La Bbc olandese coglie l’occasione e avvia un coraggioso esperimento: decide che i visitatori dei suoi siti non sarebbero stati più costretti a dire sì o no ai cookies. Inoltre, a differenza della maggior parte delle compagnie, saltare la nota sulla privacy non sarebbe stato considerato un ok al tracciamento, ma un no.

I risultati -testimonia Wired- furono “assolutamente sorprendenti”: il 90 per cento degli utenti, direttamente o saltando l’opzione, disse no.

Si preannunciava il disastro per i ricavi pubblicitari di Npo.

Uno studio di Google dell’anno precedente sosteneva che rinunciare ai cookies avrebbe ridotto del 50 per cento le entrate per gli avvisi pubblicitari. Npo non prese paura e un anno e mezzo dopo quel primo gesto di “ribellione” fece a meno dei cookies del tutto. Sui suoi siti non comparivano più gli annunci: “accetta” o “altre opzioni”. Risultato: i suoi guadagni per la pubblicità salirono notevolmente, perfino dopo lo shock del Coronavirus. La compagnia scoprì che gli avvisi pubblicitari serviti agli utenti che rifiutavano i cookies avevano portato gli stessi o più alti ricavi degli avvisi serviti agli utenti che avevano detto sì ai cookies.

A questo punto il dibattito sulla questione andò oltre la privacy su internet, ma considerò la redditività del giornalismo e perfino la salute della democrazia.

La notizia è piccola, perché riguarda un media marginale nel mondo (lo stesso diremmo se l’iniziativa fosse stata decisa dalla Rai), ma è enorme. Perchè incrina la dittatura di Google e indica per il giornalismo una strada di resistenza. Da una parte segnala la saturazione dei lettori nei confronti della scelta “accetto” legata ai cookies. Dall’altra dimostra che la pubblicità basata sulla profilazione non è l’unica possibile, ai tempi del web. Non è neanche la più redditizia in assoluto.

Negli ultimi anni il giornalismo affronta una crisi infinita e la causa è essenzialmente una: la sua principale fonte di approvvigionamento -la pubblicità, appunto- è stata deviata verso le compagnie specializzate nell’usare i dati per tracciare le persone online. Nel 2019 Amazon, Facebook e Google si sono mangiati il 70 per cento dei ricavi della pubblicità digitale e ciò -scrive Wired- “lascia gli editori combattere per quel che resta della torta”.

Passo indietro. La maggior parte degli annunci pubblicitari che appaiono accanto ai cosiddetti contenuti vengono venduti attraverso un sistema automatizzato conosciuto come “programmatic advertising”. Gli inserzionisti non scelgono il sito o la app dove i loro annunci appariranno; mostrano invece i loro annunci agli utenti che corrispondono a certi profili identificati attraverso la storia delle loro navigazioni, attraverso i cookies.

Ciò significa che Npo, come la maggioranza delle testate, si affida ai manager di Google (che detengono la maggioranza dei profili) per vendere i loro spazi pubblicitari. Google o Facebook hanno convinto tutti che questo è il miglior sistema per ogni attore della scena: gli utenti -sostengono- amano gli avvisi pertinenti, gli inserzionisti amano raggiungere gli utenti più interessati al loro prodotto con maggior precisione e i media sono pagati di più per ogni click.

Quando Npo prese la decisione storica di non profilare più i suoi “utenti” ha avuto bisogno di un altro “agente” al posto di Google, dato che Google non fornisce il servizio senza cookies.  Fu incaricata Ster: con Google gli inserzionisti si offrivano direttamente agli utenti. Con Ster gli inserzionisti sono “ciechi”, non ricevono nessuna informazione sugli utenti, ottengono solo informazioni su ciò che gli utenti guardano. Pagine e video vengono taggati in base al loro contenuto. Anziché profilare un certo tipo di cliente, gli inserzionisti profilano utenti che leggono un certo tipo di articoli o guardano un certo tipo di show.

Si chiama contextual advertising, è una sorta di ritorno indietro all’epoca prima del “microtargeting”, ma con maggior precisione. Gli inserzionisti possono pagare per inserire pubblicità in uno specifico contenuto, ma possono anche scegliere uno dei 23 custom interest channels, canali di interesse del cliente (sport e fitness, love e dating, religione e fede, Politics and policy, partiti e politica).

Npo ha deciso di abbandonare completamente i coookies all’inizio del 2020. Da allora i visitatori dei siti Npo non vengono tracciati. In gennaio e febbraio -ha dichiarato Npo- i suoi ricavi da pubblicità digitale sono cresciuti del 62 e del 79 per cento, rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente. Perfino durante i successivi mesi del Coronavirus sono cresciuti a doppia cifra.

Spiegazione semplice: adesso Npo incassa tutto ciò che gli inserzionisti spendono per pubblicare sulle sue pagine, mentre prima lasciava un’importante fetta dei ricavi nelle mani di bunch middlemen, il gruppo degli intermediari (data management platform, demand-side platform, supply-side platform).

Una relazione della Società degli inserzionisti britannici ha stabilito che metà degli investimenti effettuati dagli inserzionisti finiscono alle compagnie tecnologiche prima della pubblicazione degli annunci pubblicitari. Prendiamo Google: quando sia il mezzo di comunicazione sia l’inserzionista utilizzano le sue piattaforme per vendere e comprare programmatic advertising, Google trattiene il 30 per cento del denaro. Con il contextual targeting il gruzzolo degli intermediari diventa obsoleto, i soldi vanno spediti dall’advertiser al mezzo di informazione, salvo un piccolo pedaggio per la compagnia che governa il server.

Tutto ciò è stato possibile grazie all’aiuto della normativa europea sulla privacy. “Sarà difficile che un certo numero di pubblicazioni negli Stati Uiti possano avere la stessa esperienza”, ha detto a Wired Aram Zuckerberg-Scharff, direttore tecnico della pubblicità del Washington Post. Lui stesso, tuttavia, sostiene che il futuro sarà basato sul contenuto e non sulla storia personale dei clienti. Dunque in un mondo di contextual targeting sarà più importante creare contenuti di qualità. Il New York Times e Condè Nast, editore di Wired, stanno sperimentando una strada ibrida, abbandonare i cookies di terza parte, permettendo agli inserzionisti di propinare gli utenti attraverso i cookies di prima parte, quelli interni ai siti.

In ogni caso, Google ha annunciato che entro un anno abbandonerà i cookies di terza parte, quelli cioè gestiti direttamente su appalto dei singoli siti. Ma c’è chi sostiene che quando nessuno traccerà più nessuno, Google resterà comunque l’unico ad avere tracce di dove si aggira la navigazione di ciascuno, quindi Google resterà al comando delle operazioni.

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