di ROBERTO SEGHETTI

Chiedo scusa in anticipo per la pedanteria della premessa. 

A che cosa servono i giornali? In teoria, reso esplicito il punto di vista dal quale si osserva la realtà, le capacità professionali e l’esperienza dei giornalisti servirebbero per informare sui fatti più importanti da sapere, presentandoli nel modo più attendibile possibile, per riportare notizie utili, per dare chiavi di lettura. Sempre in teoria, il punto di vista è la linea politico-editoriale concordata tra l’editore e la redazione, attraverso la figura del direttore. Il veicolo per diffondere l’informazione, carta, web, non rileva rispetto a questa funzione di fondo.

Quando si pensa ai giornali si dimentica spesso, però, un particolare: una testata, che sia su carta o online, quotidiana o di diversa periodicità, è “anche” un’impresa economica con finalità di produzione industriale, vendita di prodotti, realizzazione di utili in denaro o in potere. 

In sostanza, un giornale è sempre un conglomerato di diverse funzioni e diversi interessi, spesso anche divergenti: l’aspirazione dei giornalisti a fare bene il proprio mestiere, ma anche l’interesse degli stessi giornalisti ad essere ben pagati, a fare carriera e a mantenere il posto di lavoro; l’aspirazione del direttore a fare bella figura e a continuare ad essere ben retribuito; l’aspirazione dell’editore a possedere un giornale autorevole che lo aiuti nei propri affari o nelle proprie aspirazioni sociali, ma anche a non perdere denari con questa impresa, anzi, se possibile, a guadagnarci.

tutte le spinte

A che cosa serve questa premessa pedante? A ricordarci che le scelte che ogni giorno fa un giornale sono il risultato di tutte queste spinte messe insieme, un vettore la cui direzione dipende dal peso più o meno grande delle singole spinte.

Parto da questa constatazione banale (per chiunque abbia lavorato in un giornale) per riprendere un discorso relativo al tema “web e migliore conoscenza di ciò che interessa ai lettori”. Discorso che ha preso le mosse da un’intervista pubblicata da La Repubblica con la direttrice del Financial Times.

In sostanza, Roula Khalaf afferma che, grazie ai cosiddetti big data, la conoscenza di ciò che interessa ai lettori è enormemente migliorata e che questo cambia anche in qualche modo ruolo e funzione della redazione. Bene. È un dato di fatto. Tuttavia mi permetto di segnalare che la conoscenza di ciò che interessa ai lettori è un’arma a doppio taglio e che questa ambivalenza non nasce con le edizioni digitali.

Tanto per fare qualche esempio concreto (e qui serve ricordare la premessa), chiunque abbia lavorato in un periodico, segnatamente i grandi settimanali politici, sa quanto valga la copertina e quante ricerche di mercato siano state commissionate su questo tema. Donnine svestite prima (per ottenere una spinta da dieci o anche ventimila copie), poi facce di bambini in età da svezzamento in primo piano (stessa ricerca di copie da studi sulle preferenze dei lettori); chiunque abbia lavorato in un telegiornale sa quanto si insista per chiudere con una notizia che susciti un sorriso bonario (mica puoi attaccare la pubblicità dei biscotti da famiglia alla cronaca nera!) o quanto si espandano e si insista sugli stessi servizi di cronaca nera non appena ci sia un accenno di aumento degli ascolti legati a questo o quel caso (e gli ascolti servono per stabilire quanto vali sul mercato pubblicitario); chiunque lavori in un giornale online sa quanto valga la parte destra (quando l’impaginazione è verticale), con i gattini, le curiosità, la cronaca stravagante (chiamiamoli attiraclic, in modo da presentare agli investitori pubblicitari un più alto numero di visitatori). O gli intermezzi con le notizie e le immagini pruriginose che alcuni siti molto compulsati usano come intermezzo attiraclic tra notizie serie (eh sì, nonostante la liberazione dei costumi, sembra che l’interesse dei lettori sia ancora pesantemente influenzato da immagini piccanti).

Mi fermo qui, ma si potrebbe continuare.

geneticamente modificate

Non è certo l’unica distorsione che affigge il mondo dei giornali. Basti pensare alle inchieste geneticamente modificate (quelle che nascono da un input degli inserzionisti o dagli interessi di posizionamento politico ed economico dell’editore).

Naturalmente, l’attenzione per ciò che interessa ai lettori, se genuina, ha anche aspetti positivi. Basti pensare alle paginate che da decenni ci raccontano ogni giorno le cronache dal palazzo di Bisanzio come se fossero la più divertente e la più interessante delle informazioni possibili. Ben venga dunque questa nuova possibilità di sapere che cosa desiderano i lettori. Speriamo che serva a spingere i giornali a raccontare meglio la realtà. 

Tuttavia, mi permetto di essere pessimista e di segnalare anche che questa attenzione, se collegata e legata troppo al tema della raccolta pubblicitaria (sono il primo o il secondo in classifica per copie di carta o per clic? E nel caso quanto cambia la tariffa pubblicitaria? E come faccio ad attirare più visite, più clic, più rimandi? Che cosa attira di più l’attenzione, anche a prescindere dalle notizie da raccontare?), possa produrre effetti distorsivi sulla funzione stessa dell’informazione professionale.

Che poi, grazie ai big data, possa cambiare anche il ruolo dei giornalisti ed il loro rapporto con i lettori, questo va da sé. Quando cambiano lo strumento e le modalità della produzione (di informazione come di tutto il resto), cambiano anche ruoli, rapporti e funzioni dei produttori con inevitabili riflessi concreti sul contenuto del prodotto.

LASCIA UN COMMENTO