di ALBERTO FERRIGOLO

Ha ragione Francesco Facchini quando dice che “il giornalismo sta cambiando, i giornalisti devono cambiare di conseguenza” e racconta quel che andrebbe fatto nella professione, a partire dalla sua esperienza personale e da quella della sua creatura, Algoritmo Umano. Darsi una mossa e mettersi in proprio. Con ingegno, fantasia e professionalità. Per superare l’impasse di una professione in declino, dal punto di vista editoriale, contrattuale, occupazionale. 

Il punto è che nel lavoro giornalistico negli ultimi vent’anni è stata introdotta una distorsione grave: la riduzione progressiva dei compensi, a partire dai collaboratori esterni, “cura” che ultimamente si è estesa anche gli assunti. Una distorsione che rischia di alterare la struttura e la fisionomia stessa del mestiere nella sua dimensione “bassa”, così come in quella “alta” e più specializzata. La logica del risparmio sta inibendo qualsiasi tensione al fare. A fare bene e a far meglio. A misurarsi con difficoltà, rischi e sfide con le quali il mestiere si è sempre misurato. Ma se non si danno le condizioni minime di “agibilità” a chi eroga lavoro, non si va da nessuna parte. È vero che il mondo potrà essere o sarà dei freelance, come fa intendere Facchini, ma a quali condizioni? Con quali costi personali?

tecnologia pervasiva

La storia dell’editoria degli ultimi due decenni ci insegna è fatta di risparmi crescenti sui prodotti che vanno in edicola: dalle pagine confezionate al costo del personale impiegato, massiccio ricorso a cassa integrazione e prepensionamenti forzati. Tutto ciò, anche in virtù dell’introduzione massiccia delle nuove tecnologie. Internet fra tutte, che ha indotto la perdita di valore del lavoro. Perché con internet tutto è più facile. Immediato. Meno concettuale. Meno faticoso. Più disinvolto. A portata di mano.

In un libro ormai di dieci anni fa edito da Laterza, “La malattia dell’Occidente, perché il lavoro non vale più”, Marco Panara, a lungo curatore del supplemento “Affari&Finanza” di “la Repubblica”, scriveva che “stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica pervasiva, che incide sui processi produttivi, sui prodotti, sulla comunicazione e, come è accaduto in passato con altre rivoluzioni tecnologiche, anche questa volta le macchine e i loro software hanno di fatto svuotato di contenuto il lavoro umano, ne hanno ridotto il valore economico, come creatore di valore aggiunto”. Cosicché “c’è bisogno di sempre meno uomini per fare le cose e il contributo di coloro che ancora servono si è ridotto”. O è solo di pura coreografia.

È accaduto nel mondo del lavoro globalmente inteso e nel mondo editoriale, giornali, tv, case editrici, radio in particolare. Redazioni per lo più dimezzate. La sbornia internet e il miraggio degli affari hanno indotto gli editori per oltre un decennio a immettere i contenuti dei propri giornali gratis sul web. Contribuendo così a segare il ricco ramo su cui essi stessi stavano seduti e ravvedendosene troppo tardi per porvi rimedio. Così facendo si è di fatto contribuito a diseducare il pubblico, che oggi rivendica la gratuità di internet quasi fosse un diritto costituzionale. Salvo, appunto, recenti esempi virtuosi come quello del “New York Times” dove gli abbonamenti all’edizione digitale stanno surclassando quelli dell’edizione di carta.  

sette o nove euro

Questo per dire che lo svilimento del ruolo del lavoro, del fatto che esso “non vale più”, incide anche sulla sua qualità e su quella del prodotto. E sul senso stesso della professione. Che sollecitazione al “fare” o al dannarsi per una notizia o per un particolare in cronaca può offrire il miraggio di un compenso da 7 o 9 euro, nel caso ci sia la provvidenziale aggiunta di un video da pubblicare sul sito de Il Messaggero, per esempio, il quotidiano romano fautore del drastico taglio ai compensi impartito dall’editore? Oppure alla realizzazione di un buon servizio se tutto è indistinto? Quale stimolo può dare il taglio del 50% dei compensi se tutte le dimensioni di un articolo sono equiparate a quella stessa cifra? Oppure, se remunerati a pezzo, dover calmierare da sé il numero degli articoli per non superare la soglia oltre la quale il lavoro svolto non viene neppure calcolato e riconosciuto. Con il rischio di compromettere la stessa collaborazione, divenuta troppo “onerosa”. Equilibri e equilibrismi.  

Più che di compensi, ormai, si tratta di regole e “incentivi” a non fare più di quanto sia in realtà necessario o richiesto. Mentre sappiamo bene che nel giornalismo, ma non solo in questo mestiere, il fare di più e meglio non è solo materia di competitività e competizione (pure con se stessi) ma un principio per un risultato concreto. Portare in redazione una notizia in più è un valore aggiunto che fa la differenza. Era, questa, la regola aurea. Ma la tendenza odierna è che il lavoro va o viene assegnato laddove costa meno. Cosicché anche i freelance di qualità, a cui guarda in particolare Facchini, hanno oggi di sicuro meno margini di contrattazione. E di soddisfazione. Prendere o lasciare è, invece, la regola dell’editore. Al di là degli sforzi, dei rischi personali, della pericolosità di certe corrispondenze freelance o collaborazioni autonome in talune aree geografiche del mondo, ci sono poi anche i costi da sostenere in proprio, al netto dei compensi ricevuti, per la riproducibilità stessa del proprio lavoro (giornali, abbonamenti, viaggi, telefoni, internet, collegamenti wi-fi, fonti, assicurazioni e quant’altro). Non viene riconosciuto più nulla. Vuoi lavorare? Organizzati. Mettiti nella condizione di… Trovati i mezzi e finanzia te stesso per riprodurre al meglio la tua forza lavoro. E ringrazia pure che lavori! Potendo soddisfare ambizioni e tensioni professionali, morali e ideali. Annota ancora Panara: “Se l’unica cosa che hai in mano è il lavoro, o almeno le competenze per svolgere un lavoro, e se il valore del lavoro che fai o che potresti fare diminuisce, ti senti debole ed esposto e allora la tendenza è alla protezione, alla difesa individuale o corporativa dello status quo”. 

economia della conoscenza

Puntare sulla cosiddetta “economia della conoscenza” è oggi il nuovo orizzonte. In cui i saperi dovrebbero restituire “valore al lavoro e giustificare i suoi costi”. Con l’idea quantomeno di conservare, se non aumentare, il tenore e la qualità della vita. Resta però inevasa una domanda: “Quanta parte della forza lavoro può trovare il suo spazio in una nuova industria basata sulla conoscenza? Il 5, il 10, il 15%?”. E il resto? Può bastare quel pezzo di economia per tenere in piedi il tenore di vita complessivo, se si viaggia su compensi di 7 e 9 euro, “all inclusive”?

“Un giornalista che sappia essere imprenditore di se stesso”, questo auspica Facchini. Perché ora “i giornalisti possono disintermediare il passaggio dell’editore e andare direttamente al lettore o allo spettatore”. Tutto vero. Aguzzare l’ingegno è la regola prima della creatività. Lo è sempre stato, del resto. In tutti i campi. Giornalismo non escluso. I tempi però cambiano velocemente e dunque bisogna adeguarsi. Cambiare attitudini e uniformarle alle nuove regole tecnologiche ed editoriali. Ma l’impressione è che “farsi imprenditori di se stessi” sia più uno slogan che una realtà, specie nell’era digitale dove gli stessi editori strutturati e alla ricerca di guadagno, sono altresì ancora e da anni alla disperata ricerca del senso generale del business e non l’hanno ancora trovato, salvo i rari esempi di cui sopra. Il mercato editoriale ora come ora, è asfittico. Sta battendo in ritirata. Non solo per mancanza di acquirenti ma, soprattutto, per l’assenza di pubblicità. Che è stata, è e sempre sarà la vera “anima del giornalismo”, il core business dell’informazione in tutti i sensi.

Che giornalismo e giornalisti siano sempre stati costretti a reinventarsi e l’abbiano fatto davanti a cambiamenti epocali del contesto economico, giuridico, tecnologico e culturale, è la realtà dei fatti. Re-invenzione e sperimentazione sono costanti nella storia di questo settore. In tutte le epoche, in tutte le stagioni. Anche negli anni i cui hanno furoreggiato i “Bingo”, i “Replay” e i tanti altri giochi abbinati alle lotterie nazionali. Oltre alla trovata delle “cassette Vhs” dei film venduti con “l’Unità“, Tutto per sostenere i costi crescenti del giornalismo, dei contenuti, delle inchieste, del lavoro. Espedienti. Che in taluni casi hanno finito con l’impoverire o svuotare il prodotto originario: il giornalismo. E rendere superflui i giornalisti che lo realizzavano. Ha avuto quasi più valore il gadget allegato che il buon articolo o la buona inchiesta. È da allora che si acutizza la crisi dell’editoria e del lavoro. Fine anni Ottanta, inizi Novanta.

pubblico e contenuti

Viene da chiedersi: c’è un pubblico certo per i contenuti? E di quali dimensioni? E di che contenuti parliamo? Nei lunghi mesi del lockdown da Covid le offerte di abbonamento agevolato sono state numerose, spesso anche sotto costo o comunque di tipo promozionale. Qualcosa è cresciuto. Ma non in maniera sufficiente e stabile. Ora tutti guardiamo al Domani, lanciato dall’ingegner Carlo De Benedetti e diretto da Stefano Feltri, per vedere se la formula degli abbonamenti, più che dell’edicola, darà il suo frutto. Non è un mistero, però, che Domani dovesse essere integralmente digitale per poi condensare il meglio della settimana apparso sul web in un’edizione cartacea nel weekend. Per evitare i costi che la dimensione cartacea quotidiana comporta. Poi è stata scelta la strada dell’edicola, tutti i giorni o quasi. Staremo a vedere se sarà stabile o si farà ritorno sui propri passi.

Internet o non internet, al centro c’è ancora e sempre la tanto discussa e analizzata natura e dimensione dell’impresa giornalistica – tradizionale, oppure rivista e corretta, alleggerita o flessibile che sia – senza la quale non è facile reggere l’iper-concorrenza dell’ormai infinito mondo dei media e dei social loro concorrenti. Quanto al giornalista “brand” – come lo definisce Facchini – questo è sempre esistito ed è stato un protagonista nei diversi generi di cui è composto il settore e la professione. È il giornalista esperto, specializzato, d’inchiesta o di esteri, di guerre, di viaggi o culturale che sia. Oggi approdato ai talk. Tale si diventa in anni di lavoro, di esperienza e, soprattutto, non tutti. Con passaggi dalla carta stampata alla tv o dalla carta alla tv al web, spesso in un andirivieni continuo o anche simultaneo. Sono le cosiddette icone del mestiere, quelli che emergono, le star. Dietro alle quali, più spesso, c’è un mondo che collabora, produce ma che lotta per e con i contratti e i livelli retributivi. Nell’era in cui il lavoro vale sempre meno. Mentre l’informazione è vieppiù ridondante.

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