di ALBERTO FERRIGOLO

“In questo periodo c’è di sicuro una maggiore coscienza sul ruolo dell’informazione, nei mesi scorsi più volte messo in discussione anche da forze politiche che sono parte del governo e che hanno cercato di colpirla. Ecco, se c’è una lezione da trarre nell’emergenza che viviamo a livello mondiale, è che l’informazione è essenziale, è un pilastro della democrazia liberale. Nell’attuale situazione, se non ci fosse, saremmo in balia di tutto ciò che circola nella Rete e della sua enorme spazzatura. Mi pare che la tragedia in cui ci troviamo abbia dimostrato che nessuno può rinunciare all’informazione professionale”.

Inizia con questa premessa il colloquio con Raffaele Lorusso, segretario della Federazione nazionale della Stampa, mentre il coronavirus mette a dura prova tutti. Il mondo produttivo in particolare, incluso il comparto editoriale. E tra le novità non messe nel conto ci sono il crollo improvviso degli introiti pubblicitari, dovuto allo stop dei consumi, e la sperimentazione dello smart working. E anche rivalutazioni, come la ritrovata “centralità dell’informazione”, segnatamente quella dei giornali, assurti a baluardo d’una corretta produzione di notizie contro il dilagare delle fake news in Rete. Paradossalmente, nell’emergenza si è passati a ridare valore persino alle edicole, il cui sistema capillare è stato scientemente scardinato negli ultimi vent’anni con la complicità degli editori, sostenitori di un programma di “liberalizzazione” del sistema distributivo, che non ha dato risultati brillanti. “È vero, oggi si rivalutano anche le edicole insieme al ruolo di bene pubblico ed essenziale di tutta l’informazione”, sottolinea Lorusso, che mette a fuoco un punto: “La prima cosa che balza agli occhi è che la quasi totalità di giornali e televisioni ha dovuto rivedere la propria organizzazione per lavorare da remoto, ma è chiaro che questa modalità dovrà ritornare alla normalità e restare confinata a situazioni molto ben definite e circoscritte. Non si può pensare che lo smart working sia il futuro dell’informazione”.

occasione importante

Perché segretario? Le tentazioni potrebbero non mancare. In fondo è una sperimentazione occasionale, che potrebbe diventare continuativa… Gli editori potrebbero risparmiare sui costi delle sedi e delle retribuzioni: meno gente, meno personale… Occasione ghiotta.

 “Sì, le tentazioni potrebbero esserci, però prendiamo atto del fatto – e chi sta lavorando sul campo lo sperimenta ogni giorno – che il sistema giornale in sé, su carta o tv poco importa, è il frutto di un lavoro collettivo e questo si forma nella discussione, nel confronto continuo che comincia il mattino presto e finisce la sera quando il giornale si chiude o va in onda l’ultimo Tg. Non è pensabile che questo confronto possa continuare con telefonate o videoconferenze. Il confronto a cui siamo abituati e per il quale nascono i giornali è fatto anche di vicinanza fisica, che può nascere dagli sguardi o da una battuta, da una contiguità materiale e intellettuale”.

Significa che l’organizzazione resterà così com’era fino a ieri?

 “È chiaro che l’organizzazione del lavoro deve tenere sempre conto dell’evoluzione tecnologica, però questo progresso va applicato nei luoghi fisici che sono le redazioni. Poi, va da sé, che ci possano essere delle applicazioni che consentono il lavoro da remoto, ma solo in determinate situazioni e contingenze. Penso al lavoro degli inviati, dei corrispondenti, di chi va sul campo, ma il nucleo centrale del giornale non può che essere costituito da un gruppo di persone che fisicamente si trova tutto nello stesso luogo”. 

C’è chi teme che dall’esperimento di smart working possa venire invece meno il giornalismo sul campo, sul posto. Che alla fine si faccia tutto al telefono, così si fa anche prima, ed è poi in fondo la stessa cosa…

 “Per la verità questo era un rischio già presente prima del Covid-19. Ed è un rischio di cui ci si rende più conto forse adesso perché si è costretti. Ma il mestiere deve rimanere quello di chi osserva le cose in prima persona, partecipa, fa domande, cerca di capire per poi far capire e spiegare al lettore, all’ascoltatore”. 

Telefoni e vicinanza

Il nostro è un esempio tangibile, date le circostanze, però l’intervista telefonica, fatta al volo, all’ultimo istante, è prassi da tempo. Così come qualche conferenza stampa trasformata, se non proprio in intervista, in colloquio. Ora si fanno anche via Skype e vanno in onda, sostituendo quel rapporto di vicinanza, fisico di cui parlavi poc’anzi.

 “Certo, ma un conto è l’intervista, un’altra il reportage. Altra cosa ancora è la conferenza stampa vera e propria, che in alcuni casi – sia pur limitati e subito circoscritti – si è anche tentato di abolire. Specie in questa fase, anche se è già accaduto già in passato, per trasformarla grazie ai social network in ‘comunicazioni’ del sindaco, del presidente e così via. Questa prassi la riteniamo del tutto inaccettabile: chi rappresenta un’istituzione se fa una conferenza stampa deve poi sottoporsi alle domande”.

Le domande hanno un ruolo centrale nel giornalismo. 

 “Esatto, servono al giornalista per far capire all’opinione pubblica quel che succede. Svolge così la sua funzione di mediatore. Non si può cancellare la mediazione”.

In questa visione potrebbero avere uno spiraglio e un maggior peso i freelance? Che sono quelli che vengono molto utilizzati nei momenti cruciali di crisi, in funzione di rincalzo, per poi essere respinti, tenuti ai margini. Come agiscono e come sono collocati i freelance in questa fase di emergenza dell’informazione?

 “I freelance stanno facendo esattamente quel che facevano prima, mi riferisco soprattutto a quelli sul campo, a chi seguiva la cronaca in presa diretta. È chiaro che questa situazione evidenzia ancor di più un tema che noi poniamo da sempre e di cui ci auguriamo di tornare a discutere con il governo: il lavoro dei freelance è lavoro precario, anzi è lavoro dipendente mascherato. Bisogna riportare questo lavoro all’interno del contratto e riconoscere i diritti, le garanzie e le tutele del contratto a chi fa ogni giorno il lavoro sul campo e in prima linea”.

 A quali figure, in particolare, ti riferisci?

 “Da tempo diciamo che ci sono figure professionali, come i co.co.co., che sono soltanto un modo per aggirare il contratto nazionale di lavoro. Per noi il 99% dei co.co.co. sono lavoratori dipendenti e quindi vanno inseriti nel contratto. Mi auguro che conclusa questa fase voglia prenderne atto anche il governo”. 

Aiutare i freelance

Prima dell’emergenza Covid-19 era stata creata una Commissione sul lavoro autonomo.

”Sì, il Governo aveva avviato un tavolo di confronto sia per definire l’Equo compenso sia per mettere in campo misure di contrasto al lavoro precario”. 

Segretario, come giudichi il lavoro del sottosegretario con delega all’Editoria Andrea Martella?

 “Da quando ha assunto la responsabilità del settore, Martella ha dato numerosi segnali di attenzione. Ora siamo in emergenza e a lui abbiamo chiesto di sostenere il settore informazione perché sta perdendo fatturato pubblicitario. E’ un settore che va sostenuto perché attraverso l’informazione si stanno aiutando i cittadini a orientarsi, a capire quel che succede assumendo comportamenti corretti. Se non ci fossero giornali e tv i cittadini sarebbero in balìa di qualsiasi voce, sulla Rete o del primo che passa. Il settore va aiutato con provvedimenti mirati – e qualcosa è già stato fatto proprio per incentivare gli investimenti pubblicitari – ma è chiaro che si deve anche pensare ad altro, come alla possibilità d’un credito d’imposta sull’acquisto della carta, su determinate spese fisse. Dopo di che il settore deve porsi anche il problema di come rafforzare la componente lavoro, anche se si tratta di un problema che dovrà porsi tutto il paese in via generale, perché non si può pensare di poter vivere sempre o solo di sussidi e aiuti”.

Però questo è un tempo in cui la pubblicità crolla, i giornali riducono la foliazione, tagliano inserti. Poi però abbiamo anche un editore come Cairo che fa fatturato, macina utili e dividendi e li distribuisce agli azionisti e a se stesso. Intanto però chiede 50 prepensionamenti, che pesano sulle già aggravate casse dell’Inpgi. Come può accadere?

“Sul punto mi sento di sottoscrivere alla lettera quel che ha denunciato il Comitato di redazione del Corriere della Sera e anche i cdr della Gazzetta dello Sport e dei periodici Rcs. E cioè non si può pensare di affermare di aver realizzato un utile importante, di distribuire i dividendi, e un attimo dopo di chiedere la sottoscrizione di un accordo di ristrutturazione per crisi. Chiudere un bilancio in utile e distribure i dividendi non è un reato, ma semmai è indice dello stato di salute dell’impresa”.

Ma il cr del Corriere si è dimostrato disponibile a siglare l’intesa.  

“Dopo la firma del cdr di via Solferino sotto l’accordo, l’ultima parola l’avrebbe comunque il ministero del Lavoro: spetterebbe al dicastero di via Veneto dirci se è accettabile il fatto che un’azienda dichiari di essere in utile e di aver distribuito i dividendi e poi dichiari lo stato di crisi e quindi acceda a risorse pubbliche per mandare in pensione anticipata una serie di suoi dipendenti”. 

Dividendi e fondi pubblici

Ma se ci fosse l’avallo sarebbe grave?

“Sì, lo sarebbe. Perché sarebbe lo stesso ministero del Lavoro, e dunque il governo, a contraddire proprio ciò che pochi giorni fa, nell’approvare una serie di misure a sostegno delle imprese, ha stabilito: e cioè che le imprese, per accedere a queste misure, non devono aver distribuito dividendi. A questo punto dovremmo chiedere al governo di essere quantomeno coerente con se stesso”.

Una contraddizione in termini.

“Dobbiamo tuttavia tener conto del fatto che il crollo dei fatturati pubblicitari sarà presto visibile in tutte le aziende del settore e anche nel gruppo Rcs-Corriere della Sera, dove nel giro di pochi mesi rischiamo di avere uno scenario completamente capovolto e diverso da quello che è emerso dal bilancio chiuso il 31 dicembre 2019. In una fase come l’attuale, quel che si  chiede a imprenditori che hanno una maggiore disponibilità di cassa, una maggiore potenza di fuoco, è invece di farsi carico più di altri delle criticità di gestione e di investire di più sui prodotti e sul lavoro”.

La posizione della Fnsi in questo caso quale potrebbe essere?

“La posizione del sindacato, alla luce di quel che scrivono i Comitati di redazione di tutto il gruppo Rcs, è che bisogna essere conseguenziali e che ad oggi una richiesta nelle dimensioni di quella presentata da Cairo non è assolutamente accettabile. Certo, rispetto a quel che sta accadendo ora ai fatturati pubblicitari ci si può sempre e comunque sedere intorno a un tavolo, confrontarsi e studiare quali misure adottare con gradualità e tener conto delle possibilità della singola azienda”. 

Ma non c’è un vizio di forma macroscopico proprio nella legge stessa sugli stati di crisi e i prepensionamenti, che dà in qualche misura mano libera agli editori proprio su quest’aspetto?

 “Sicuramente sì, e nel decennio 2008-2017 era anche peggio, perché allora la legge consentiva l’accesso agli ammortizzatori sociali e ai prepensionamenti sula base di una semplice dichiarazione di crisi prospettica”.

Ultimo tema, il contratto, scaduto nel 2016. Cosa si prevede? Quando vi siederete intorno a un tavolo con gli editori?

“Proprio a fine gennaio avevamo deciso con la Fieg di riavviare il tavolo per discutere il rinnovo. Noi su quel tavolo, intorno al quale ci siamo seduti solo in via preliminare, abbiamo posto il tema del lavoro e della sua centralità. Bisognerà ora capire, quando saremo in grado di tornare alla normalità, se ci saranno le condizioni per discutere o meno di un rinnovo perché bisognerà verificare in che stato verserà il settore”. 

Alleggerire i costi

Ma l’atteggiamento della controparte qual è?

“Sicuramente c’è lo sforzo di continuare ad assicurare un prodotto dignitoso nonostante le difficoltà dell’organizzazione del lavoro quotidiano. Certi lo stanno facendo con grande responsabilità ed è chiaro che non tutti gli editori sono uguali, perché ci sono anche quelli che non vedono l’ora di poter utilizzare tutti gli strumenti messi in campo dal governo per potersi alleggerire di una serie di costi. C’è chi spinge per utilizzare la cassa integrazione in deroga con la causale Covid-19 ed io su questo punto ho moltissime perplessità: l’accesso a questo tipo di ammortizzatori sociali, a legislazione vigente, creerebbe un buco contributivo ai colleghi perché la contribuzione figurativa sarebbe accreditata presso l’Inps. Vorremmo che se ne facessero carico anche gli editori e il governo: sarebbe auspicabile, se questa misura dovesse essere messa a disposizione del settore editoriale, che essa consentisse ai colleghi di non subire un danno contributivo”. 

Quali sono i punti di maggiore crisi editoriale al momento?

“Riguarda tutti, nessuno escluso. Poi è chiaro che c’è chi ha le spalle più larghe e può reggere meglio e chi più strette e rischia di trovarsi in difficoltà. Ma se si tratta di un servizio pubblico essenziale, come è stato riconosciuto, ci aspettiamo che quanto prima possono arrivare sostegni a tutta la filiera, da giornali fino alle edicole”. 

Si uscirà con una selezione di testate dall’emergenza coronavirus?

“Io mi auguro di no. Molto dipenderà dalle risorse che deciderà di stanziare il governo e molto dalla volontà degli editori di credere nei propri giornali. Il settore si sostiene non solo con il contributo pubblico, che soprattutto in una fase come questa non deve venir meno, ma anche con gli investimenti degli editori”.

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