Per carità, non chiamiamolo clausura, segregazione, isolamento, confinamento: sono tutte parole italiane; assai meglio lockdown: fa più chic, più esotico, è più internazionale. Chiamiamolo come si preferisce, è comunque, e sempre, una gran scocciatura. Vi poniamo rimedio nei modi più singolari: chi ascolta l’opera omnia di Bach; chi, nel guardaroba, fa prematuramente il cambio di stagione; chi legge, o rilegge, i libri sul metro della lunghezza: consigliati Joyce e Dostoevskij, ma anche la Recherche può servire. Soprattutto, ci dedichiamo però alla cucina e alle videochiamate. Pare che ci impegnino in media un’ora al giorno, tanto c’è tempo: nonni, genitori, nipotini; almeno, li vediamo giocare e ne leggiamo i volti. Ma diventano interminabili anche gli sproloqui tra amiche. Vanno assai di moda i collegamenti multipli: «Chiamata di gruppo alle 15.30, mi raccomando».

”signore, raddoppia?”

E se il “carognavirus” si fosse manifestato non troppi, ma soltanto qualche decennio fa? La stessa teleselezione ha appena compiuto 50 anni. Prima, si usavano soltanto le «signorine»: «Mi passa il tal numero della tal città….?». E il collegamento, non era nemmeno immediato: si chiedeva anche: «Scusi, ci sarà molto da aspettare?». Perché, in caso di necessità, c’erano pure le «urgenti». Che però costavano, ovviamente, più caro. Per risparmiare, si telefonava la domenica: si pagava la metà, come anche la sera. Quando finalmente il centralino chiamava per metterci in comunicazione, il suono era diverso: dei “drìnnnn” più brevi frequenti del solito.

Al telefono, si era sbrigativi: c’erano le «unità» di tre minuti; una voce ti avvisava quando stavano per scadere: «Signore, raddoppia?». Il numero delle «interurbane» era il 14; per l’estero, si usava il 15. Allora, le utenze erano di appena quattro cifre; la teleselezione è diventata di tutti nel 1970;  ai numeri urbani, abbiamo aggiunto obbligatoriamente il prefisso solo dal 1998: quasi l’altro ieri. Ma poiché qui trattiamo di informazione, allora, nei giornali, c’erano le «fisse»: per risparmiare sulla bolletta, la redazione chiamava quelle periferiche e i corrispondenti sempre a una certa ora, almeno per evadere le pratiche più consuete.

campione del mondo

Ah, i giornali senza la teleselezione; e anche senza molto altro. Sono arrivato a Roma, e nel 1970, al Messaggero, c’erano gli stenografi. Li dirigeva Scioti (ormai sono invecchiato, e mi si alza l’Alzheimer: chissà come si chiamava di nome), che guardavo con rispetto; mi avevano raccontato che era stato un campione del mondo nella specialità, e il giornale l’aveva portato via al Senato offrendogli (allora, si usava) qualche quattrino in più. Del resto, alla tipografia dell’Unità a Milano, il mio primo correttore di bozze è stato il fratello di Gramsci: s’occupava del Quotidiano del popolo. Poi, gli stenografi sono diventati «dimafonisti»: registravano. Ormai, chi fosse sopravvissuto, si è trasformato in altro: non ci sono più nemmeno i loro impianti. L’unica alternativa alla dettatura dei “pezzi” (non esistevano ancora neppure i fax) era la telescrivente: spesso, dovevi perforarti da solo la «zona», cioè una banda cartacea che poi la macchina leggeva per trasmettere. I primi computer hanno fatto risparmiare oltre un’ora di lavoro, tra dettatura, ricezione e trascrizione. E poi, «mi senti bene?», e la linea che continuava a interrompersi, a «cadere», e non si faceva male lei, ma ne faceva soltanto a te…..

Però, parlavamo di isolamento e clausura, pardon, di lockdown: ve lo immaginereste mai senza i telefonini, senza le videochiamate? Forse, bisognerebbe mettersi a rileggere Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, 1.265 pagine; per la cronaca, era il 1975.

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