di RAFFAELE FIENGO

Quale strada deve intraprendere il giornalismo italiano per superare la crisi strutturale che lo attanaglia? Qualche settimana fa ho espresso una proposta, durante un incontro  organizzato dalla Fondazione Murialdi. Torno su quell’analisi per Professionereporter.eu, nella speranza di alimentare una discussione cui devono seguire decisioni ormai urgenti.

      Oggi sono ancora una volta in gioco i valori della professione. Con il mandato morale di Paolo Murialdi e in armonia con il gruppo dirigente che uscì dalla “svolta di Salerno” (quando il sindacato dei giornalisti si rinnovò e fu eletto il cattolico democratico Ceschia), mi sento di essere ruvido.

      Un punto acquisito da tutte le ricerche, soprattutto non italiane, (ne ho fatte anche io, per 17 anni di seguito, all’Università di Padova), è il seguente: il giornalismo, nello stato attuale, italiano in particolare, ma anche nelle altre parti del mondo dove la libertà della stampa c’è, non è in grado di fare la sua parte se non in misura limitata. Basta pensare a Instagram che in  Italia ha 19 milioni di contatti mensili. Diamo per noti i discorsi su Facebook, Twitter, Instagram, YouTube, in combinazione con i big data, le profilazioni individuali, il mercato della diffusione di “sentiment”, e la non trasparenza degli algoritmi, tutte cose che ipotecano fortemente la formazione dell’opinione pubblica. Il giornalismo strutturato copre una parte assai piccola del campo, riesce a malapena a tenere botta, a fare il proprio compito, dove il contesto sociale è ricco di informazione, di pluralità delle forme culturali, quasi sempre solo nelle grandi città. Vale per la Brexit, vale per Trump, vale per Erdogan, vale per l’Iran, per l’Europa.

legittimazione perduta

        Nelle aree metropolitane il giornalismo opera, nel bene e nel male: c’è la cultura, c’è il meccanismo dell’informazione digitale, chiamiamola così, che però non subisce la grande manipolazione veicolata attraverso il ”sentimento” diffuso facilmente e prevalentemente nelle periferie sociali e culturali, dove forma senza sforzo i consensi elettorali che stanno minando le democrazie. Si trova quello che sto dicendo in decine di ricerche. La rivista della Columbia University ha diffuso un testo dove si dimostra come il giornalismo stia perdendo addirittura la sua legittimazione di fronte ai meccanismi della pubblicità, nativa e dintorni, del marketing. Il giornalismo non è neanche più primario dove dovrebbe esserlo, nelle imprese editoriali, nei grandi media, nei giornali, nei siti, nelle tv.

       Allora su tutto questo sommovimento avvenuto e operante, sto avanzando da tre anni ovvie e naturali proposte, in diverse forme capaci di avere più giornalismo, dentro e fuori. Il giornalismo non può sopravvivere senza allargarsi, andando a responsabilizzare in rete chi fa informazione, i comunicatori, i non comunicatori, quelli che fanno i siti. Diciamo almeno trentamila persone di cui dodicimila adesso, abbastanza presto, entreranno nell’Inpgi. Ma non basta che entrino nell’Inpgi e ci salvino il conto. Bisogna che questi siano in qualche modo riconosciuti dalla comunità senza intaccare la serietà e la struttura dell’informazione professionale, peraltro manchevole a sua volta.  

          Se questo non avviene noi andiamo incontro ai fenomeni che fronteggiamo tutti i giorni nei Paesi occidentali. È semplice, sotto gli occhi di tutti, la soluzione. Ma appena la dici diventa incerta, sarebbe meglio che venisse dal cielo. Magari da una autorità lontana, una istituzione, un governo. Ma attenzione, il potere mal tollera il giornalismo. Meno ce n’è, meglio si sente. La mia proposta è quella del ”giornalista per adesione”, l’ho chiamato così. Ma l’ho presa da Piero Calamandrei, non me la sono inventata! Perché Calamandrei, difendendo Danilo Dolci, (4 mesi di carcere nel 1956 per aver chiamato un centinaio di disoccupati edili a rimettere in sesto, con uno “sciopero bianco”, una strada, una vecchia “trazzera”, da tempo non più praticabile,  per raggiungere una frazione di Partinico) spalleggiato in giudizio da Norberto Bobbio e Carlo Levi, aveva dimostrato che la comunità, quando c’è una prestazione, la deve riconoscere.

quattro punti chiave

         Non so se il “giornalista per adesione” possa o debba entrare in un elenco speciale dell’Ordine. Forse basterà chiedere a chi vuole una responsabilità sociale e voglia anche tenersi lontano da fake-comunicatori, di sottoscrivere i quattro punti che ha suggerito la collega Rita Querze’ che si occupa di lavoro nell’ Economia al Corriere:

”A) tutela dei minori, mai riconoscibili tramite nomi o immagini;

B) impegno a pubblicare notizie verificate almeno con una fonte;

C) nessuna forma di ricompensa o vantaggio dai soggetti citati nelle news che si firmano

D) niente denigrazione o toni che incitino a odio e violenza;

         Potrebbe venirne la creazione di una sorta di “bollino”, un simbolo di cui si possa fregiare chi ha firmato questi impegni”.

        La Federazione della stampa e gli organismi che sono il cuore del giornalismo in Italia, ne sono la difesa storica. Lo sono anche gli attuali rappresentanti. Loro sono gli eredi, è loro il compito di creare le condizioni perché sia presente il miglior giornalismo dove ora non arriva, riempire di contenuti razionali quello che sta avvenendo nel peggiore disordine. Non possiamo chiudere gli occhi e dire “ci basta prendere i soldi dall’Inpgi e stiamo più tranquilli con le pensioni”. Perché questa è una questione drammatica e necessaria, urgente.

         La Federazione della stampa, l’Ordine, chiunque sia, deve almeno incominciare a chiedere alle persone che stanno entrando nell’Inpgi, chi si assuma precisi obblighi deontologici. Si può organizzare una “operazione conoscenza”, chiedere per sapere chi è interessato, che cosa fa nel campo dell’informazione, anche per incominciare ad avere una prima mappa, un inizio di censimento, per poi agire. Può darsi che pochi vogliano assumersi impegni.    

La rai metallurgica 

           La nostra storia é piena di questi passi fatti con coraggio, pensate alla RAI. Adesso ci stupiamo a ricordarlo: ma la Rai, solo qualche anno fa non era una impresa giornalistica, ma eredità’ di quella metallurgica: non solo gli operatori, i fotografi (quasi mai riconosciuti giornalisti anche nella carta stampata) e molti altri, davano prestazioni in sostanza giornalistiche, ma erano trattati da tecnici, come i contratti, quasi tutti i contratti erano metallurgici. Poi piano piano sono diventati giornalisti seguendo i contenuti e le loro prestazioni, i cameramen, i dimafonisti e gli stenografi. Non possiamo non procedere con questa apertura, con questo spirito, in questo modo. Certo con tutte le prudenze del caso, senza intaccare i meccanismi solenni, formali e collaudati dell’ accesso alla professione. Ma non possiamo non farlo.

             Non sarà sufficiente inseguire le realtà affermate come Fanpage (dove dai 5 iniziali si è arrivati a più di 30). Bisognerà trovare il modo di qualificare molto altro, pur tenendo regole di qualità verificata per chi vuol essere giornalista professionista.

             Se non ci assumiamo la responsabilità del fatto che le democrazie non hanno il giornalismo e la libertà di stampa automaticamente e per sempre nelle proprie mani, avremo brutte sorprese. È la libertà di manifestare il pensiero alla base della democrazia, non viceversa.  Sotto i nostri occhi il giornalismo sta cambiando velocissimamente, non ce ne accorgiamo, perché anche dove sembra esistere in realtà non c’è. Il giorno della nascita del governo Conte II, Sky News24 ha trasmesso Salvini che faceva una conferenza stampa e le domande non si udivano in televisione. Questo vuol dire che il giornalismo lì non c’era, perché se vedo tutti i giornalisti che fanno le domande e sento solo le risposte, quella diventa una diretta Facebook.

piccoli corrispondenti

              Cinquant’ anni fa, al Corriere avevamo i corrispondenti anche nei paesini. Quasi sempre non erano giornalisti con il timbro, talvolta erano dei professori, dei maestri, ma erano riconosciuti nella comunità come “”Corriere della Sera”. E non cascava il mondo. Dobbiamo rifarlo, prenderne mille, duemila, pagarli per le singole prestazioni, li facciamo corrispondenti del Corriere. Sono un antidoto alla manipolazione. Guardate che la manipolazione nella rete è totale, passa dagli algoritmi, passa dalle profilazioni, comprate e vendute insieme con i pacchetti di contatti. Trump ha comprato per le elezioni 180 milioni di profili individuali. Quando interveniva su una votazione in bilico e interveniva con la geolocalizzazione (lo spiega la Nieman Foundation for Journalism all’universita’ di Harvard) Trump aveva la certezza al 90% di ottenere il proprio risultato. Lui andava in Virginia occidentale, metteva la parola “carbon” e, a quelli che usavano cinque volte la parola “carbon”,  mandava il messaggio. “Io difendo l’industria del carbone“ diceva e i voti li ha presi. E ha così vinto. E se non bastasse, nel maggioritario, chi ha in mano il disegno dei collegi elettorali e lo può pilotare (Jerrymandering), oggi altera facilmente il numero degli eletti perché con i profili i voti si conoscono prima che siano dati.

            Questa realtà c’è dappertutto e la possiamo contrastare, ma non solo con le leggi. Qualche cosa sta avvenendo. Dopo lo scandalo Cambridge Analytics, Facebook sta facendo marcia indietro, comincia a cancellare le fakenews e il discorso razzista e violento). Ma non illudiamoci. Facebook non può cambiare natura. Dunque questo non basterà, e nemmeno la lotta per la trasparenza degli algoritmi (pur giusta).

          Non dimentichiamo che il campo allargatissimo e velocissimo della comunicazione non ha solo virus cattivi e pilotati. Di tanto in tanto si manifestano effetti stupefacenti e meravigliosi. La settimana della Terra in pericolo, culminata in Italia venerdi’ 28 settembre con le manifestazioni “Friday For Future” dei ragazzi in 180 città con più di un milione in strada l’abbiamo vista con piacevole stupore. Per non parlare delle Sardine.

           Questi lampi di coscienza generale sono abbastanza rari, ma ci sono. E aiutano a capire. Uno ci fu la sera dell’incendio a Notre Dame, con il canto di preghiera nelle strade intorno alla chiesa in fiamme, credenti e laici, cristiani e musulmani, avversari politici, forse anche nemici storici, profondamente insieme. E  il 13 febbraio 2011, quando donne di tutta Italia riempirono strade e piazze con le parole “Se non ora quando?”. Anche allora una imprevedibile prova di coscienza collettiva, poco immaginabile.

           Tutti lampi rimossi e archiviati in 24 ore. Nelle reti dei nativi digitali anche le sensibilità buone diventano consapevolezza generale. Ma non si consolidano mai. Scompaiono dal quadro subito. Perché il giornalismo, quello con la sua connaturata autonomia, non ha la stessa ampiezza.

          Può sembrare un po’ ruvido. La categoria strutturata deve saper vedere il giornalismo dove c’è nelle forme precarie e riconoscersi reciprocamente. Se non riusciamo a farlo, sarà un tradimento. Abbiamo paura di perdere consenso, perché la corporazione (e sbaglia), non vuole un allargamento? Lo capisco. Ma non dobbiamo farci prendere da piccole viltà che non ci appartengono. L’allargamento non può portare che bene a tutti, perché noi siamo -insieme- una cosa sola, il giornalismo.

           Dove c’è, il giornalismo deve essere riconosciuto dalla comunità, a incominciare da noi. Al più presto. Il mio vuol essere un doveroso e amorevole “early worning”, un’allerta tempestiva.  

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