di FABIO MARTINI

Oramai tutti i media e tutti i “generi” giornalistici sono attraversati dallo stesso fenomeno pervasivo: la personalizzazione. Mai nel passato i riflettori del sistema mediatico si erano concentrati tanto su singoli personaggi. Leader e leaderini, scienziati e ciarlatani, assassini e assassinati, calciatori e scrittori. Una personalizzazione che, tra i suoi effetti, ha avuto anche quello di moltiplicare in quantità esponenziale le interviste. Finendo per modificare in profondità la natura di questo genere giornalistico. E mentre i politologi, da lungo tempo, studiano il fenomeno della personalizzazione nel campo delle scienze sociali, giornalisti e studiosi del mondo dell’informazione tardano, per usare un eufemismo, a focalizzare e concettualizzare l’impatto di questa novità sulla qualità del prodotto giornalistico.
Ma basta scavare, per scoprire che proprio sul fronte delle interviste si sta producendo uno smottamento deontologico e professionale, assieme ad alcune novità che invece accrescono lo specifico giornalistico di questo genere. Un’intervista, da sempre, è interessante se le risposte producono un valore aggiunto rispetto a ciò che già conosciamo: su un tema, una dinamica politica, un provvedimento, una vicenda storica, un’opera d’arte, una partita di calcio, o anche sul personaggio intervistato.
La natura delle interviste sta cambiando. La prima novità è di localizzazione: l’intervista, che “era una vecchia istituzione del giornalismo scritto”, per usare un’espressione di Paolo Murialdi, si è in buona parte trasferita sugli schermi televisivi. E non serve Mc Luhan per intuire che il contesto cambia anche il testo. L’obbligo dello share impone all’informazione televisiva una caratteristica spettacolare ben descritta dal suo nome: talk show.
E’  sicuramente mutuata dal varietà del sabato sera la prima originalità: in gran parte dei talk show (non tutti), le risposte sono accompagnate da applausi del pubblico in studio, la cui natura – spontanea o automatica – è ignorata dal telespettatore. L’applauso – se c’è o se manca – “scalda” o raffredda, condizionando emotivamente il contenuto informativo.

Tv, tre tipologie di domande

Ovviamente il contenuto giornalistico più importante in una intervista è rappresentato dalle domande. I conduttori dei principali “talk” sono tutti professionisti collaudati e spessissimo propongono le questioni “giuste”, ma con tre variabili. La prima riguarda la tradizione: in Italia non c’è un modello rigoroso al quale conduttori e spettatori sono tenuti a richiamarsi, non esiste un’aspettativa collettiva per una intervista “tosta”, il terzo grado al quale si devono sottoporre i politici nelle principali democrazie occidentali. Seconda variabile: nella storia professionale di alcuni ottimi conduttori ci sono conduzioni di convention di partito, trascorsi parlamentari, momenti di partigianeria. Terza variabile: la qualità delle interviste è altalenante,  strettamente legata al potere “contrattuale” dei giornalisti nei diversi momenti politici. Nell’anno che ha preceduto le elezioni Politiche del 2018 i vincitori annunciati, Salvini e Di Maio, facevano i “difficili” e pur di averli in trasmissione, in genere gli intervistatori hanno ridotto il “coefficiente di difficoltà” delle domande. Che è tornato su livelli professionali non appena i leader di maggioranza, nell’approssimarsi delle Elezioni europee, hanno avuto urgenza di moltiplicare le proprie presenze televisive.
Eppure, nonostante queste variabili, le interviste televisive mantengono un altissimo contenuto di “verità” psicologica: le facce, le reazioni istintive, i tic, i sorrisi affettati e quelli veri, l’emotività, gli imprevisti restituiscono una “resa” psicologica che dice di quel personaggio molto più di tante risposte preparate.

TRATTATIVE CON I Potenti

Per non parlare di quelle assai più “lavorate” che compaiono sui giornali. Certo, su quotidiani e settimanali si continuano a leggere interviste interessanti, talora anche a personaggi scomodi, che raccontano storie scottanti, che lasciano il segno. Ma se passiamo a politici, capitani d’industria, magistrati tutto diventa più opaco. Dietro quasi tutte le interviste importanti c’è una minuziosa contrattazione. Primo step: la scelta del giornalista. Se l’intervistato ha potere, sarà lui a scegliere l’intervistatore o ad esprimere un veto in caso di non-gradimento del prescelto. Il giornalista sa che, se vuole guadagnarsi una prossima volta, farà bene a girare alla larga dalla domanda-clou, che l’altro non si vuol sentirsi fare. Abbonderanno domande frizzanti o persino irriverenti, ma finalizzate a fare titolo, di solito sulla polemica del giorno.
Negli ultimi anni sono intervenute due “innovazioni”. Può capitare che l’intervistato illustre chieda domande (e risposte) scritte. Può capitare (sempre più spesso) che l’intervistato (anche meno illustre) voglia rileggere il testo delle sue risposte. Sono “innovazioni” che risalgono alla prima stagione berlusconiana: hanno fatto scuola in tutte le aree politiche; sono recepite senza obiezioni da tutti i direttori; tolgono freschezza e talora anche “verità” alle interviste. Una procedura che rappresenta un implicito atto di sfiducia nei giornalisti, ma si tratta di una sfiducia spesso alimentata da intollerabili scorrettezze: l’aggiunta di domande ex post e le titolazioni talmente esorbitanti da risultare false. Una cosa è certa: alla fine quel che arriva sul giornale è quasi sempre il prodotto di una serie di “sottrazioni”: nella scelta del giornalista, nelle domande, nella rilettura.

Le consuete regole auree

Ma nessuna di queste “sottrazioni” o condizionamenti determina di per sé o automaticamente, uno scadimento qualitativo. Così come sarebbe illusorio immaginare che esista un manuale della buona intervista. Le uniche regole che garantiscono un prodotto professionalmente all’altezza sono le stesse del buon giornalismo: il rispetto dei criteri di accuratezza, imparzialità, trasparenza. Regole auree chiamate ogni volta a confrontarsi con la natura del giornalismo italiano, che ha sempre faticato a sentirecome propria una vocazione al quarto potere. Interpretando semmai una tendenza al fiancheggiamento di tutti i poteri: partecipando al gioco, consigliando il potente.  I giornalisti giudiziari sono indulgenti con i magistrati, i critici cinematografici lo sono con i grandi registi e lo stesso vale per il giornalismo politico, sportivo, culturale, sindacale, economico. E il genere più a rischio, ora e sempre, è proprio l’intervista. Per una ragione semplicissima: in nessun altro “luogo” giornalistico le controparti sono così vicine.

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