(v.r.) Applausi: no grazie. Su Repubblica, rispondendo a un lettore che si lamentava per il fastidio creato dai battimani durante i talk show televisivi, Corrado Augias ha spiegato che si tratta solo di “rumore di fondo, chiasso, punteggiatura”, che non significa nulla perché espresso da “figuranti pagati e diretti da un direttore di studio”.
Invece è tempo che i giornalisti dicano di no. Per noi, no, non va bene: il messaggio che arriva allo spettatore è infatti inquinato, ambiguo, incomprensibile. Il pubblico che, dopo una dichiarazione o un’intervista, avverte un segnale di consenso, la prova di un’approvazione, più o meno come le urla che seguivano, nel Colosseo, l’uccisione di un gladiatore o che, al giorno d’oggi, seguono la prestazione di un cantante, di un attore, di un uomo politico, di un amministratore o, magari di un commentatore qualsiasi: uno Sgarbi, una Parietti, un Mughini.
Sono i giornalisti che non devono accettare. Il perché è semplice: loro non sono intrattenitori, non fanno spettacolo, non aspirano al consenso o al dissenso. Sono “cercatori di verità” (lo dice la legge) e lo devono fare a prescindere dalle opinioni espresse dal pubblico, vero o presunto. Per Floris, per Vespa, per Formigli, talvolta è imbarazzante ascoltare quegli applausi: di chi sono, perché arrivano, cosa significano? In una trasmissione giornalistica non aiutano chi sta a casa a capire quale sia la verità.
E togliamo una buona volta anche la parola show, che serve a quelli che vanno in tv solo per pavoneggiarsi e farsi vedere. Il giornalismo è ricerca, è sforzo rigoroso per ricostruire e capire i fatti. Non è spettacolo e non deve usare le sue armi. Biagi, Barbato, Zavoli non l’avrebbero mai accettato.

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