di MICHELE CONCINA

Tre anni fa il Guardian era in stato pre-comatoso. “Le vendite declinavano, la pubblicità a stampa stava collassando, quella online in cui tutti avevamo sperato andava quasi in blocco a Google e Facebook”, riassume la direttrice Katharine Viner, che da un anno aveva assunto il comando, prima donna in due secoli. Una sintesi ancora più efficace è la cifra che chiudeva il bilancio 2016: perdite per 57 milioni di sterline, 65 milioni di euro.

E’ il disastro che incombe da tempo su quasi tutti i giornali di carta del mondo. Ma il Guardian ha trovato un modo per scansarlo. Il 1° maggio scorso la casa editrice che pubblica il quotidiano e il settimanale gemello Observer ha annunciato di aver raggiunto il pareggio, anzi di aver registrato un piccolo ma non disprezzabile profitto, 800 mila sterline. Grazie a un modello di finanziamento basato sulla fiducia reciproca fra il giornale e i lettori. Che si può riassumere così: dateci dei soldi se potete, ma se non potete non importa; noi continuiamo a fare giornalismo di alta qualità, mettendolo a disposizione di chiunque abbia sotto mano un computer (o un cellulare, o un tablet).

655mila sostenitori da 180 paesi

“Volevamo che il nostro prodotto rimanesse globale, libero e accessibile, non riservato a chi può permettersi di pagarlo”, ricorda Viner. Ai lettori dell’edizione stampata e di quella digitale, da allora, viene proposto di contribuire. Tutti i mesi, tutti gli anni oppure occasionalmente, in base alle disponibilità e ai meriti che attribuiscono all’informazione che ricevono. La risposta è arrivata, imponente, “commovente”, da oltre 180 Paesi. I sostenitori regolari sono oggi 655 mila, mentre i contributi una tantum sono stati 300 mila solo lo scorso anno. “Sono persone talmente fedeli al Guardian che pagano per qualcosa che potrebbero ottenere gratis. Potrebbe esistere un legame più intenso?”, riflette l’amministratore delegato David Pemsel.

Per gli appassionati di queste cose: nei tre anni il numero di pagine viste è quasi raddoppiato, da 790 milioni al mese a un miliardo e 350 milioni. Al pareggio, naturalmente, hanno contribuito anche le riduzioni dei costi, per circa un quinto nell’arco dei tre anni, con la perdita di 500 posti di lavoro fra giornalisti, impiegati e tecnici; e il passaggio a un formato tabloid.

Mesi per assicurarsi notizie

Anche la redazione ha mantenuto la sua parte del patto: il Guardian resta uno dei giornali migliori del mondo. Ha edizioni complete in Australia e negli Stati Uniti. I giornalisti viaggiano ogni volta che è necessario per seguire da vicino i fatti. Impiegano mesi, se occorre, per assicurarsi notizie di risonanza planetaria, come l’uso fraudolento dei dati di Facebook da parte di Cambridge Analytica per truccare le elezioni americane, rivelazioni che hanno costretto Mark Zuckerberg a presentarsi al Congresso americano con il capo cosparso di cenere. O per scrivere inchieste memorabili, come quella sulle città di provincia britanniche che hanno votato a favore della Brexit. Un grappolo di editorialisti esprime opinioni che complessivamente rientrano nel campo progressista, ma distribuite su un arco molto ampio: da Simon Jenkins, che appoggia esplicitamente lo sfortunato accordo raggiunto da Theresa May con l’Unione Europea, ai tanti che lo spernacchiano senza pietà.

Ogni contenuto è disponibile online a chiunque, senza paywall, senza abbonamenti, senza limiti mensili alla consultazione. In altre parole, chi può permetterselo paga, insieme alle sue informazioni, quelle di chi non può permetterselo.

Più di metà dei proventi della società editrice, ormai, arriva dalle attività su Internet. L’azienda si dichiara comunque impegnata a mantenere edizioni su carta dei suoi giornali, che conservano una ragguardevole base di 110 mila abbonati, anche se la pubblicità stampata si è ridotta all’8 per cento delle entrate.

E’ sempre stato un giornale un po’ speciale, il Guardian. La sua storia comincia a Manchester con una strage di dimostranti inermi, il massacro di Peterloo. Il 16 agosto 1819 gran parte della popolazione locale era scesa in piazza per protestare contro leggi che l’affamavano e un sistema politico assurdo: Manchester, seconda città del Regno Unito e avamposto della rivoluzione industriale, non aveva deputati in Parlamento, mentre l’unico elettore residente nello sperduto e ridente villaggio di Old Sarum ne aveva ben due a rappresentarlo. Le autorità cittadine, spaventate dalle dimensioni della folla, ordinarono cariche di cavalleria. I soldati uccisero undici persone, ne ferirono centinaia, arrestarono chiunque si trovarono sottomano. Compreso l’inviato del Times, appena arrivato da Londra.

La capitale e il resto del Paese, dunque, rischiavano di ricevere solo una versione ufficiale dei fatti. Ma un cronista locale, John Edward Taylor della Manchester Gazette, capì il rischio: scrisse in fretta il suo resoconto e lo affidò alla diligenza della notte per Londra per farlo recapitare al Times. Nelle settimane seguenti, mentre si gonfiava uno scandalo nazionale, Taylor decise di fondare un giornale per accompagnare il nascente movimento per la democratizzazione dello Stato e il riscatto delle classi povere. A finanziarlo, una forma primordiale di crowdfunding: dieci donatori da 100 sterline, altri undici da 50.

A consolidare definitivamente l’eredità professionale e politica di Taylor, morto nel 1844, fu un direttore-editore formidabile, straripante: suo nipote Charles Prestwich Scott. Prese le redini del giornale nel 1872, a 25 anni, e le mantenne per 57. Passati a fare da bestia nera per le classi dirigenti conservatrici. Schierò il Guardian a favore dell’autogoverno dell’Irlanda e contro la guerra anglo-boera, appoggiò il voto alle donne, da liberale difese i sindacati e il loro nascente partito, il Labour. La sua linea editoriale: “I commenti sono liberi, ma i fatti sono sacri”.

Difficile rimpiazzare una personalità così forte. Perciò il figlio John, che non si fidava di se stesso e tanto meno del resto della famiglia, una volta ereditata la società editrice nel 1936 le eresse intorno una fortificazione impenetrabile: lo Scott Trust. Che ha una sola missione: “Assicurare in perpetuo l’indipendenza finanziaria ed editoriale del Guardian come giornale nazionale di qualità privo di affiliazioni con partiti politici; restando fedele alla sua tradizione liberale; come impresa che ricerca il profitto gestita in modo efficiente”. E’ il Trust, proprietario delle testate, che nomina i direttori, ma da quel momento in avanti non interferisce con le loro decisioni; e può rimuoverli solo “in circostanze estreme”. Sarà per questo, forse, che durano a lungo: il predecessore di Viner è rimasto in carica vent’anni.

Difensore civico in redazione

Oggi il Guardian è l’unico giornale britannico provvisto di un ombudsman, un difensore dei lettori interno alla redazione. E l’unico a commissionare (dal 2003) a un’azienda esterna una revisione annuale sull’osservanza dei suoi principi sociali, etici e ambientali. Per statuto, ogni centesimo di profitto deve essere speso per migliorare il prodotto giornalistico.

Il caso del Guardian è raro, ma non unico. Alcuni altri giornali –meno prestigiosi e meno carichi di storia- sperimentano formule nuove per far fronte alla crisi globale dell’editoria attraverso il coinvolgimento dei lettori. In Olanda, per esempio, è attivo il sito De Correspondent: lanciato nel 2013 con un crowdfunding che ha raccolto oltre un milione di euro, pubblica solo approfondimenti. In Svizzera, la “rivista digitale” Republik recluta abbonati-azionisti, che hanno versato sei milioni e mezzo di euro; e presenta in home page i suoi “17.917 editori”. Il Bristol Cable è una cooperativa di duemila azionisti-giornalisti: addestrati e affiancati da professionisti, pubblicano notizie locali “che interessano al pubblico, non agli affaristi”. Non è l’ora del dilettante: ogni collaborazione è scrupolosamente pagata.

(nella foto in home page, la direttrice Katharine Viner)

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