di FRANCESCO FACCHINI

Qualche tempo fa il Guardian, quotidiano inglese che da tempo indica la strada dell’evoluzione dei media, ha pubblicato il primo articolo scritto da un’Intelligenza Artificiale. Un momento storico, passato quasi inosservato. Un momento che divide un prima da un dopo per i giornalisti e per il pubblico. L’autore si chiama GPT-3 ed è un algoritmo di tipo linguistico che è in grado di creare testi in autonomia che riescono ad avvicinarsi a quelli che possono scrivere gli umani.

Si potrebbe discettare su molti aspetti che questo evento scatenerà, ma è importante farsi una domanda. E ora, cosa succede al giornalismo e ai giornalisti? Nella mia carriera ho avuto l’onore di insegnare a molti giovani giornalisti e comunicatori. Spesso sono entrato nelle aule e, per prima cosa, ho fatto una domanda. Era questa: “Dove si gioca il futuro della professione giornalistica?”. Varie le risposte, molte di queste coraggiose. La mia è questa: il futuro del giornalismo si gioca nella distanza tra il giornalista e l’Intelligenza Artificiale. Ecco perché.

All’uscita dell’articolo del Guardian in molti avranno pensato all’approssimarsi della fine del giornalismo quale professione determinante per mediare tra il pubblico e la realtà, creando cittadini più consapevoli. L’Intelligenza Artificiale è considerata come un nemico pubblico per la sua capacità di sostituirsi all’uomo in operazioni sempre più vicine a quelle dell’essere pensante. La categoria dei giornalisti, poi, è geneticamente votata alla resistenza nei confronti del cambiamento. Ebbene, tutte preoccupazioni inutili. Lo dice chiaramente anche lo stesso autore fatto di chip di quell’articolo. L’Intelligenza Artificiale è un prodotto dell’uomo e come tale sottosta alle sue regole.

Sulla mia piattaforma Algoritmo Umano, ho avuto la possibilità di intervistare il presidente dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale, Piero Poccianti. In un passaggio della nostra chiacchierata il dottor Poccianti mi ha riferito di un grande timore della comunità scientifica a creare una stretta etica dell’Intelligenza Artificiale, prima che scappi di mano. Poi mi ha sparato là una considerazione secca: “Si tratta di una preoccupazione inutile. Sarebbe come fare l’etica del coltello”. Sono rimasto sconcertato da questa verità: è chiaro che il coltello può servire per uccidere, ma è chiaro che l’uomo lo ha inventato per tagliare cibi e cose. Lo stesso vale per l’Intelligenza Artificiale: dalla maggior parte di coloro che la creano, viene naturalmente pensata per migliorare la nostra vita. Poi ci sarà chi con l’IA ci vorrà uccidere, ma essa resterà anche in quel caso lo strumento di una mente deviata, la stessa di chi prende in mano un coltello per ammazzare qualcuno. Per cui è il caso di continuare a punire l’uomo per l’uso che fa delle sue creazioni, non gli strumenti che utilizza.

Lo stesso vale per il giornalismo. Se pensiamo che l’Intelligenza Artificiale possa sostituire i giornalisti e e aggravare la situazione di questo mondo fatto di post-verità, siamo sulla strada sbagliata. I giornalisti, invece, devono prenderla in mano subito e trasformarla, in un’evoluzione dell’industria dei media, in uno strumento adatto a migliorare il giornalismo. Si dovranno mettere, per essere chiari, in una posizione diversa rispetto alla tastiera o alla videocamera o allo smartphone. In questo momento, quando creiamo un prodotto giornalistico, abbiamo le mani sui nostri attrezzi. Quando l’IA arriverà in redazione, saremo a un metro di distanza, intenti a fare altre cose mentre le macchine processeranno in autonomia, secondo le nostre indicazioni, il prodotto giornalistico.

La distanza fra il giornalista e l’Intelligenza Artificiale, quindi, deve essere di un simbolico metro per quanto riguarda l’esecuzione del prodotto giornalistico, ma deve annullarsi per quanto attiene al flusso di lavoro che porta alla produzione del contenuto. Lo dico chiaramente, aiutato dalle idee dell’illuminato Francesco Marconi, fuoriclasse dell’innovazione nel mondo dei media, messe in fila nel suo ultimo libro Newsmakers. Il giornalista deve imparare a codificare l’Intelligenza Artificiale, deve imparare a usarla, in un ruolo che sia quello del ricercatore e del progettista dei passaggi creativi e narrativi che portano alla produzione della notizia. Quell’arretramento di un metro dalla tastiera, quindi, sarà, se abbracciamo l’Intelligenza Artificiale, il primo passo per una nuova professionalità del giornalista.

Quale? Se ci sono le macchine che completano i passaggi, al giornalista resterà tempo per una migliore verifica delle fonti, per ampliare la potenza del suo pezzo, per leggere dati, per riflettere su immagini, grafici, video, corredi della notizia multimediale. Al giornalista resterà più tempo per studiare il mondo che cambia attorno a lui. Resterà ferma la sua missione, quella della mediazione sociale e della conversazione con il pubblico, ma verrà espletata in modi e con strumenti diversi. Già, perché l’Intelligenza Artificiale non è né buona, né cattiva. L’uso che se ne fa è buono o cattivo.

In questo panorama, anche le redazioni dovranno cambiare in modo radicale, come suggerisce Marconi nel suo libro. Dovranno diventare centri di controllo del flusso, di organizzazione e sviluppo della tecnologia e delle risorse, di coordinamento dell’operazione collettiva che è e resta fare un medium. Dovranno, soprattutto, allearsi con istituzioni e aziende tecnologiche di IA per creare nuovi format di prodotti editoriali che diano un’informazione migliore sfruttando tutti i sensi e tutte le opzioni possibili dell’uomo per la comprensione del reale.

C’è un piccolo particolare. Ho toccato con mano la completa inadeguatezza del mondo del giornalismo e della formazione accademica della nostra professione. Il rapporto tra l’Intelligenza Artificiale e il giornalismo, nell’agenda del mondo dei media italiani, non esiste. Non esiste nemmeno nelle scuole di giornalismo, ancora avvoltolate nelle tecniche e nelle materie dei media tradizionali. In un’ecosistema dei media mondiali che corre, l’Italia è ferma. Faccio un appello accorato: fate a tutti i ragazzi delle scuole di giornalismo la domanda “Dove si gioca il futuro della professione”. Poi cominciate ad agire, prima che sia troppo tardi.

www.francescofacchini.it

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