di MICHELE MEZZA

Ma perché i giornalisti non pretendono di essere protagonisti della denuncia sulle manipolazioni in rete? Perché ad esempio non chiedono alla senatrice Segre, che presiede la commissione sull’odio nel web, di essere auditi e diventare soggetti della ricerca?

Il punto su cui si dovrebbe discutere nella categoria, almeno con la stessa sollecitudine e passione con cui si difende la propria libertà dai vertici editoriali, riguarda una “mediamorfosi” che sta spingendo i giornalisti, volenti  o nolenti, ad essere parte essenziale della Cybersecurity.

privacy digitale

Proprio il rapporto che la Polizia postale ha inviato alla Commissione Segre in questi giorni ci mostra come stiano mutando la dinamica e il contenuto degli attacchi alla nostra privacy digitale. Fino alla pandemia, potremmo dire, che la cybersecurity riguardava la difesa dei patrimoni digitali, di quel sistema di controllo e conservazione di documenti, password e riservatezza con cui gestivamo le nostre relazioni digitali, a cominciare da quelle economiche e sanitarie.

Un aspetto certo fondamentale che determinava la sostenibilità dell’intera infrastruttura tecnologica e delle attività sociali che ad essa sono appoggiate. 

cassetta degli attrezzi

Da qualche anno il fenomeno è completamente mutato: l’aspetto ideologico, ancora meglio psico politico potremmo dire, prevale su quello patrimoniale. Cybersecurity diventa, ormai prevalentemente, la capacità di alterare il senso comune di un Paese, usando l’informazione, più concretamente, la cassetta degli attrezzi del giornalismo -composta da fatti, fonti, interpretazioni e documenti- per manomettere la percezione della realtà e indurre reazioni psicologiche che distorcono la nostra opinione.

I dati del report della Polizia postale sono chiarissimi. Man mano che si alza la tensione internazionale e si avvicinano scadenze elettorali, aumenta a dismisura l’infiltrazione di messaggi e di fake news prodotte, in maniera orchestrata e coordinata, da ben individuati centri internazionali.

antisemitismo e immigrati

Due sono le caratteristiche di questa infiltrazione. Da una parte un bombardamento da parte di sistemi automatizzati, chat bot che oggi sono gestiti da dispositivi di Intelligenza artificiale, che lavorano su tematiche trasversali, combinando antisemitismo con pacifismo anti ucraino, o forme di discriminazione anti immigrati. Su questi argomenti si documenta una proliferazione di video e informazioni del tutto falsificate, che associano immagini di altri contesti a notizie attuali.

Queste strategie puntano ad indurre fenomeni di rancore e disgregazione sociale generici nelle loro motivazioni, ma tutti finalizzati a respingere ogni istanza di controllo e trasparenza democratica. Il secondo livello ci riporta all’esperienza di Cambridge Analytica, e più espressamente a quella guerra ibrida teorizzata qualche anno fa dal Capo di Stato Maggiore russo Gerasimov, che ha mutato radicalmente natura e contenuti dell’informazione. Ci riferiamo alla creazione di milioni di profili di elettori contendibili, ossia cittadini le cui opinioni sono considerate incerte e di confine su aspetti particolari, come ad esempio il fisco o l’immigrazione, su cui esercitare una specifica pressione utilizzando il bagaglio di informazioni sulla loro attività, visione e linguaggio. Anche in questo caso materialmente l’operazione è condotta con batterie di migliaia di bot che inquadrano singoli bersagli da convincere.

neutralizzazione dei bot

Il punto su cui intervenire riguarda proprio l’individuazione e la neutralizzazione di questi bot. Dopo anni di questo stillicidio ancora non è stata adottata nessuna strategia efficace. Benché tecnologicamente sia possibile identificare i contenuti che provengono da un sistema artificiale rispetto a quelli prodotti da essere umani, si continua a tergiversare. L’interesse delle piattaforme come Google e Facebook è fin troppo evidente: queste attività di falsificazione e inquinamento delle informazioni, producono una gran massa di dati e di traffico che economicamente rende molto ai service provider. 

Ma a livello Europeo si continua a denunciare queste malversazioni, come ultimamente ha fatto anche il Commissario al Mercato Unico Thierry Breton, che ha esplicitamente attaccato il gruppo di Elon Musk. Eppure non sarebbe difficile pretendere una piena distinzione fra contenuti umani e flussi automatici, costringendo chiunque attivi dei bot a registrarli in un specifico albo.

missione pubblica

Non potrebbe essere questa una proposta adottata dai giornalisti? La promiscuità fra sistemi di manipolazione geopolitica della rete e l’attività professionale delle redazioni è ormai quanto mai estesa e invadente e dobbiamo capire come e dove questo fenomeno stia modificando il nostro mestiere. Si tratta di rivendicare un nuovo statuto di tutela e riconoscimento di missione pubblica, chiedendo ai singoli Paesi e alla stessa Unione Europea la classificazione del giornalismo professionale come mestiere che attiene alla sicurezza nazionale. Per questo bisogna definire norme e procedure che renda i giornalisti titolari sia dell’attività di implementazione e validazione dei sistemi tecnologici delle redazioni, sia di affidargli, nella loro attività, anche funzioni di controllo e ispettorato dei percorsi digitali delle notizie.

Siamo ad un passaggio epocale, che investe direttamente la permanenza e praticabilità di una professione che ritrova proprio nella trasparenza e nella competenza tecnologica una propria ragion d’essere.

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