di MICHELE MEZZA

La notizia che il National Geographic ha licenziato i suoi ultimi 19 giornalisti e non sarà più venduto nelle edicole americane in qualche modo già mi pare che renda più problematica la conclusione del report della Reuters che Andrea Garibaldi ha lucidamente riassunto e commentato nei giorni scorsi.

Sarebbe difficile infatti negare che quella testata storica sia uno dei più condivisi casi di giornalismo di qualità, che per altro vantava un target dedicato e un linguaggio affine alle nuove tendenze che si affermano in rete. Ma qualcosa comunque non funziona e dunque la ricerca della Reuters andrebbe almeno problematizzata.

l’analisi e il senso

Ovviamente non discuto il lavoro di documentazione mastodontica compiuta dalla più prestigiosa agenzia giornalistica del pianeta, ma mi lascia perplesso l’analisi e il senso che si vuole dare a quei dati.

In sostanza le diverse categorie in cui vengono divisi gli utenti dell’informazione – gli evitatori di notizie, o i diffidenti, o ancora i rissosi- ci danno un’idea che ritengo fuorviante, ossia che in rete più o meno funzioni come nell’edicola, dove tutto si gioca nella credibilità di chi parla, o scrive nel caso. Una visione che ci porta a pensare che la transizione dal cartaceo al digitale in corso da almeno 25 anni, non muta la struttura e la dinamica del sistema giornalistico, che si riproduce nel nuovo ambiente esattamente secondo le linee che hanno caratterizzato l’informazione nei decenni passati.

protesi della vita

In particolare trovo discutibile l’idea che i social siano considerati, nel loro insieme indifferenziato, in cui Instagram vale Whatsapp, come generiche fonti alternative alle mediazione professionale dei giornalisti.

I social, e la rete più in generale, ce lo spiegano i più accreditati guru del settore, non sono un media, ma una protesi della vita, dove trasportiamo le nostre attività e le nostre relazioni, grazie all’opportunità di entrare in una scena più grande, che forza i limiti angusti della sfera privata in cui eravamo costretti nella esistenza precedente al digitale. 

Almeno 5 miliardi di persone, di cui in media solo un terzo era in qualche modo servito regolarmente da un’attività giornalistica, oggi è entrato in uno spazio pubblico in cui vive comunicando, cioè producendo e scambiando la propria informazione.

barbari digitali

Questo è il dato con cui il giornalismo deve confrontarsi: non la lotta contro i barbari digitali, quanto la competizione con un modello professionale che deve valorizzare la relazione con l’utente.

Il nodo che dobbiamo affrontare come cultura professionale riguarda proprio la nostra capacità, come singoli e come comunità redazionali, di innovare l’innovazione, ripensando la domanda di partecipazione che sale da tempo dai lettori diventati utenti. Se ormai ogni nostro articolo o pezzo audiovisivo diventa in rete una conversazione che rende la nostra produzione instabile e provvisoria, integrata e corretta permanentemente dalla comunità reticolare che ci legge, dobbiamo allora riorganizzare i modelli e le competenze professionali, per diventare partner dei nostri destinatari.

sistemi ambiziosi

Soprattutto dobbiamo assumere un ruolo in quella nuova fase della rete che si sta aprendo con il decentramento delle intelligenze artificiali. Anche in questo caso dobbiamo ragionare non tanto su come usare ChatGPT nelle redazioni, quanto capire come e perché i nostri utenti usando quei sistemi diverranno più capaci e ambiziosi nell’aggirare la nostra mediazione.

In questo nuovo intreccio fra ambizioni e rischi, dove il potere dei fornitori di tecnologia sta diventando dominio sul nostro cervello, dovremmo recuperare un ruolo pubblico, ricomponendo la forbice fra informazione e informatica. I giornalisti devono accreditarsi come figure capaci di affiancare gli utenti nell’aspirazione ad essere più autonomi nell’uso e pianificazione dei sistemi tecnologici. I giornalisti devono mettere a disposizione della comunità l’esperienza che devono accumulare nella riprogrammazione dei propri sistemi digitali, a cominciare proprio dai procedimenti di addestramento dei dispositivi intelligenti.

rilanciare il mestiere

Da questo punto di vista mi pare ad esempio essenziale che ci si interroghi, come categoria, sul ruolo che le redazioni assumono nei processi di riorganizzazione e di sviluppo tecnologico: quanti giornalisti e con quali funzioni sono al tavolo in cui si decide quale strategia adottare per l’innovazione della testata? Quali nuovi figure professionali abbiamo in redazione per gestire autonomamente le nuove fasi di spezzettamento e personalizzazione dei nostri prodotti? Come rivendichiamo il controllo dei dati dei nostri utenti che le piattaforme su cui ci appoggiamo accumulano ed usano contro di noi?

Sono domande che riguardano profondamente la trasformazione in atto e ci danno una prospettiva per rilanciare il mestiere.

In questa logica i dati del report della Reuters diventano così leggibili come un processo di trasformazione della struttura e dell’assetto dell’intero sistema dell’informazione, in cui ruoli e saperi sono tutti in discussione  e dove l’idea della qualità si basa, lo spiega nitidamente proprio il libro della Abramson “Mercanti di Verità”, che giustamente cita Garibaldi, nella nostra capacità di personalizzare notizie e contenuti senza delegare a sistemi esterni la relazione diretta con il lettore, che dobbiamo noi profilare e da lui farci profilare in una relazione trasparente e reciproca su cui ricostruire un patto di mutua assistenza.

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